Savana Funk, leggerezza e rischio: l’intervista e il concerto al Locomotiv Club di Bologna

Savana Funk, leggerezza e rischio: l’intervista e il concerto al Locomotiv Club di Bologna
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Abbiamo incontrato i Savana Funk, l’8 dicembre, prima del loro live al Locomotiv Club di Bologna, per parlare della nuova versione di “Ghibli”, della nascita dei loro pezzi e della leggerezza come valore.

La fama che aleggia attorno al nome dei Savana Funk, l’immagine di una band che si diverte e che fa divertire, trova la propria approvazione dal vivo. La band è accompagnata da un pubblico familiare e fedele che sa già che non potrà fare altro che scatenarsi e lasciarsi travolgere dall’energia emanata, senza troppi sforzi, dal trio. Su tutti i presenti, si riflette l’eclettismo dei suoni di “Ghibli” e delle improvvisazioni.

Pogo, ballo e cori “da stadio” condividono un unico spazio in un unico momento confermando anche le voci sul potere della comunione di influenze dei Savana. Nella scaletta, si sono alternati pezzi distesi ed emozionanti, su cui si ci è mossi comunque, ad altri dal groove irrefrenabile. Brani come “Elephant”, “Ghanaba” e la title track del nuovo album, dal vivo più che su disco, si dimostrano gli emblemi più rappresentativi dell’attitudine del gruppo. A chiudere in bellezza il live e a far accogliere felicemente l’inizio del proprio dj set, ci ha pensato il producer Loopus in Fabula unendo la propria storia musicale a quella dei Savana Funk.

Prima di questa esperienza emozionante e al tempo stesso esilarante, Aldo Betto, Blake Franchetto e Youssef Ait Buozza ci hanno preparati a dovere allo spettacolo:

Partirei col parlare di “Ghibli The Remixes”: al di là del fatto che sono tutti dei dj, cos’altro accumuna gli artisti che hanno fatto parte di questo lavoro?

A: Chiamiamoli anche producer, non sono solo dj. Sia Rocca che Gaudi ci tengono a questa cosa. Abbiamo preso delle persone contigue al nostro mondo, che conosciamo noi o persone attorno a noi e, ovviamente, per una questione di gusto, di estetica musicale. Ad esempio, Frank Sativa ha prodotto i primi dischi di Willie Peyote. Lo abbiamo conosciuto a Torino, abbiamo chiacchierato, ci ha sentiti, gli siamo piaciuti. “Se prima o poi fate dei remix” …”Facciamolo!”: quando è arrivato il momento lo abbiamo interpellato. Rocca lo aveva conosciuto Yousef l’anno precedente, aveva fatto un lavoro in teatro e si era aperto un canale così. Gaudi, invece, è una conoscenza della nostra agenzia di booking e con lui stiamo lavorando a dei brani che usciranno, non dei remixes, ma dei veri e propri pezzi.

Questo lavoro nasce dalla rielaborazione di “Lipari” di Gaudi; per quanto riguarda gli altri artisti, avete lasciato carta bianca o li avete indirizzati in qualche modo?

Y: Ognuno ha scelto il brano che voleva, totale carta bianca!

Per quello ci sono tre versioni di “Lipari”?

A: Per la nostra esperienza, abbiamo capito che con gli artisti più lasci carta bianca e più ognuno è libero di esprimersi. Crediamo che diano il meglio così.

Cosa accumuna la musica dei Savana Funk al mondo dell’EDM e dell’industrial?

B: Abbiamo una matrice groove sin dal primo anno che siamo assieme. Che sia hip hop, che sia musica africana, che sia la quota di funk, a noi interessano la melodia e il groove: i due elementi trainanti della nostra musica. Tutta l’EDM e tutta la musica dance, elettronica, che va dagli anni ’80 in poi è una prosecuzione di quel filone. A noi che amiamo anche quel versante della musica, viene molto naturale creare un dialogo tra questi due mondi. L’elemento in comune è il groove. Poi, sulla psichedelia, sulla costruzione, c’è la massima libertà.

A proposito di goove, avete una visione apotropaica della musica o la considerate un metodo per trasmettere dei messaggi? Per voi, la musica è più spensieratezza o veicolo di idee?

Y: Direi un può compromesso fra le due cose. Già noi, solo con la nostra presenza, siamo un messaggio. La nostra musica li approfondisce. Già con i titoli, senza riferimenti palesi, tentiamo di dire qualcosa.

A: è un compromesso tra le due cose: siamo politicizzati, abbiamo le idee molto chiare su alcuni aspetti, ma altrettanto possiamo sottolineare che per noi un certo tipo di leggerezza è a tutti gli effetti un valore perché è una visione, un modo di affrontare la vita. È già tutto una tragedia, almeno facciamoci una risata.

La vostra musica veicola, più o meno direttamente, dei messaggi; c’è un modo per inserirli in fase di scrittura?

A: Si suona, si crea la musica e dopo, in qualche maniera, le si dà un significato. Al momento della creazione è meglio lasciare le cose fluire. Il nostro compito è quello di avere le antenne aperte, di veicolare qualcosa che ci attraversa. Poi, una volta che questo qualcosa verrà decodificato in un brano, in una musica, in un’atmosfera, in quel momento lì, gli diamo una suggestione, un titolo, un nome. Questa cosa ci aiuta ad interpretare meglio questa musica, in qualche maniera ci aiuta a visualizzare.

Questo modo di visualizzare la musica quanto dipende dal pubblico? L’interpretazione della vostra stessa musica dipende dal pubblico o è unicamente vostra?

B: Anche su questo fronte c’è un dialogo. È chiaro che quello che noi partoriamo come idee, come brani, nasce da quello che ci accomuna e che ci rappresenta. Poi, quando presentiamo i dischi e vediamo la reazione del pubblico, capiamo anche noi quello che arriva di più, che comunica con maggior forza. È un processo dialettico. Ovviamente, quando creiamo, partiamo dall’idea di creare musica che vibri forte in noi e che, per espansione, poi arrivi agli altri. Se pensassimo solo al pubblico, magari, comprometteremmo troppo la musica da fare qualcosa che non ci rispecchia. C’è un’apertura verso quello che il pubblico percepisce, ma di base è un’emanazione di quello che siamo.

L’assenza dei testi, in questo senso, vi aiuta o vi crea delle difficoltà?

Y: Dal punto di vista personale aiuta. Non c’è il paletto della lingua, è una cosa senza confini e quindi devi andare di immaginazione e cercare di riuscire a raccontare una storia con gli strumenti e basta. Il suo bello è che sia aperta a tutti, senza la barriera della lingua.

Come mai avete scelto uno spettacolo improvvisato con delle jam rispetto ad uno spettacolo preimpostato?

A: Qua abbiamo un po’ virato: nel tempo, l’aspetto improvvisativo è un pelo diminuito a favore di un aumento del peso specifico di quello che suoniamo. Ne approfittiamo per citare un amico che non c’è più, Jimmy Villoti, un musicista bolognese che è venuto a mancare qualche giorno fa, della vecchia guardia, uno spirito straordinario. Tra le tante cose che ci ha lasciato, ci ha lasciato un insegnamento fondamentale: il pubblico che paga il biglietto per vedere un tuo concerto, non paga affinché suoni bene, paga un biglietto per il grado di rischio che tu sei in grado di assumere. La gente ti vuole vedere rischiare.

Quando fai una jam, un’improvvisazione, ti stai prendendo dei rischi. In qualche maniera, chi ti vuole sentire apprezza questa cosa. Viviamo in un’epoca in cui la musica va in una direzione completamente opposta, i concerti sono molto ottimizzati: è difficile che scadano sotto un certo livello di qualità, ma è altrettanto difficile che raggiungano certi picchi. Noi vogliamo suonare, prenderci dei rischi, come i funamboli. È quella la cosa bella: il brivido che provi suonando. Il pubblico percepisce quell’emozione forte. Ad un certo punto c’è anche l’errore, la sbavatura…chi se ne frega, non è quella la cosa importante. Ti sei preso un rischio, fa parte del gioco anche quella cosa. Però, quando le cose funzionano, lì, c’è la magia. Per quello ci piace lasciare dei momenti aperti nel nostro concerto.

I vostri pezzi nascono tutti da jam session o c’è qualcosa di elaborato diversamente in fase di scrittura?

B: Non c’è una formula che seguiamo, cerchiamo di assecondare i flussi che ci sorgono. Magari uno di noi ha un riff e lo portiamo in saletta o magari nasce da un’idea improvvisata dal vivo. C’è di tutto e di più. Anzi, magari qualcuno arriva con più sezioni e, quando ci vediamo, le trasformiamo insieme. C’è un lavoro di “labor limae”: quando tu limi e metti a fuoco un concetto che appariva in forma molto rozza. Ogni tanto, può succedere che apriamo una jam, un concerto, in un posto particolarmente propenso ad aprire le scritture, e nascono anche delle nuove idee, creiamo un nuovo flusso. Diciamo che ci sono un po’ tutti e due questi versanti: idee che ci nascono a casa, jam o variazioni su cose che avevamo fatto in precedenza.

So che siete stati in studio con Gaudi, questo tour ha influenzato la creazione di qualcosa di nuovo?

Y: La collaborazione con lui nasce per creare qualcosa di diverso da quello che facevamo prima, quindi credo proprio di sì. Ogni volta che collabori con un artista nuovo che è diverso da te, credo che ti lasci qualcosa…lo si ascolta con profondità.

Visto che i live si basano su jam session, è successo che qualche cosa portata in studio sia nata sul palco?

Y: No, ancora no

Le date sono state tutte diverse tra loro; per voi, qual è stata quella riuscita meglio?

A: Tutte belle, tutte un po’ diverse tra loro. Per un gusto totalmente personale, mi sono divertito molto con Rocca. Sarà l’assonanza generazionale o di gusti, mi sono trovato molto bene. Ma anche con Gaudi o Zingabeat, a Rende e Cosenza, è stato molto bello, così come con Loopus. Se dovessi sceglierne una, quella con Rocca è stata molto divertente. Poi ha portato il flauto che il nostro tastierista, il quarto elemento della band, detesta e ci proibisce. Quella volta non c’era e abbiamo potuto suonare anche con il flauto

a cura di
Lucia Tamburello

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