Ermal Meta: “Tribù urbana”, per guardare dentro e fuori di sé

Ermal Meta: “Tribù urbana”, per guardare dentro e fuori di sé
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Dopo la partecipazione al Festival di Sanremo con Un milione di cose da dirti, Ermal Meta ha pubblicato un nuovo disco, Tribù Urbana. A tre anni da Non abbiamo armi, è tornato con un album in cui il suo cantautorato pop è perfettamente riconoscibile, a fuoco, senza sbavature.

Spesso, sbrigativamente, si dà al termine leggerezza un’accezione cattiva. Soprattutto in ambito musicale, probabilmente per il significato che l’espressione “musica leggera” aveva a metà del secolo scorso, la parola leggerezza non è mai stata vista di buon occhio. Allora, infatti, la musica leggera era quella di mero intrattenimento, in netta contrapposizione con le canzoni dei cantautori, che erano impegnate.

Eppure, io ho sempre considerato la musica di Ermal Meta leggera, che non vuol dire affatto superficiale, ma lieve, capace di volteggiare, di accarezzare. Una musica che sfiora, solleva, avvolge e che restituisce una narrazione della realtà che è poetica e suggestiva.

Tribù Urbana non fa eccezione, perché è un disco leggero. Ha un’intensità che non si esprime mai con prepotenza e una morale che non è mai severa. Ermal Meta fa se stesso, la sua scrittura è immediata, sensibile, popolare, non conosce artifici né deviazioni. Arriva come deve arrivare, lucida e chiara, senza alcun tipo di esitazione.

Tribù Urbana: guardare fuori per guardarsi dentro (e viceversa)

Tribù Urbana è un disco intimo ma non per questo inospitale, anzi. Mette a nudo il suo autore, eppure è un album inclusivo, corale, un progetto che senza l’altro non potrebbe esistere (o perlomeno esisterebbe a metà).

Per questo mi piace raccontarlo come un album diviso in due parti, in cui ognuna delle due è necessaria per la realizzazione dell’altra.

Se alcune canzoni mettono in luce la parte più intimista di Ermal Meta, altre sono una lente d’ingrandimento sulla vita degli altri. Raccontano i dolori, le malinconie, le delusioni, le speranze e le esperienze che hanno vissuto.

Ermal osserva gli altri per raccontare se stesso o indaga se stesso per capire gli altri? Non è dato saperlo, perché è un disco in cui dentro e fuori sono ben amalgamati, fino a farne un racconto coerente, intenso e sincero.

Le canzoni di Tribù Urbana

Tribù Urbana è composto da undici canzoni, suddivise (quasi) equamente in due gruppi. Il disco si apre, non a caso, con un brano necessario, illustrativo. Uno, infatti, è il fischio d’inizio di un viaggio tra interiorità ed esteriorità, tra esperienze personali e sentimenti altrui, tra diversità e inclusione.

Nel brano, Ermal Meta canta «Un bambino calcia un pallone oltre il muro, ci separano ma il cielo è uno». In Uno le distanze si azzerano, inizia così un percorso in cui esplorare l’altro non vuol dire marcare le differenze. Significa, piuttosto, osservare il punto in cui le differenze si annullano e i sentimenti diventano universali, sebbene si traducano in modi di essere e di vivere diversi.

Le canzoni che guardano fuori

Quattro sono i brani che fanno parte del gruppo delle canzoni che guardano fuori. Il primo è Il destino universale, in cui Ermal racconta la storia di quattro persone diverse per età, cultura e vissuto, ma tutte accomunate dal bisogno di prendere in mano la propria vita e farne un’occasione di riscatto.

Nel brano canta così: «Ci manca il coraggio di dire “Lo faccio, concedo a me stesso di essere libero” / Per sperare non si chiede il permesso».

Nina e Sara è la storia di due giovani donne che imparano ad amarsi nonostante un imperante retaggio culturale le voglia sbagliate, anormali, diverse.

Ecco uno stralcio del testo: «Nessuno sapeva cosa avessero in mente. Qualcuno le sentì parlare: “La felicità non te la posso garantire, ma la tristezza te la posso risparmiare”. Poi le hanno viste insieme, andare via insieme».

In No satisfaction il ritmo si fa incalzante e sostenuto, il brano è la denuncia di una società malata, apatica, insensibile al richiamo dei sentimenti. Siamo vittime della società in cui viviamo, alieni nel mondo che ci ospita (Per chi perde e per chi vince il premio è uguale).

In Un altro sole la protagonista è la speranza di un mondo nuovo, emancipato dalla paura del diverso, perché in fondo «nel fango della stessa sorte, tutti noi siamo uguali, che ridiamo con le costole rotte per andare avanti».

Le canzoni che guardano dentro

Il secondo gruppo, a sua volta, è formato da cinque brani, in cui i sentimenti più intimi di Ermal Meta diventano protagonisti di un racconto personale, emotivo, qualche volta romantico.

Ad aprire le danze è Stelle cadenti, la storia di un bene che supera persino la fine (Se potessimo iniziare le storie all’incontrario, così verso la fine potersi vivere l’inizio / Con questo schifo di dolore, che tu dici non è niente e che passerà).

Poi tocca a Un milione di cose da dirti, il brano che Ermal ha presentato al Festival di Sanremo 2021. Un pezzo d’amore senza increspature, essenziale e lineare (Siamo come due stelle scampate al mattino).

Non bastano le mani mette a nudo Ermal in modo autentico e viscerale: il brano, forse tra i più intensi dell’intero disco, è un pezzo che nasce con un sussurro e poi diventa un urlo di dolore.

Ci sono rabbia, rassegnazione, nostalgia, lucidità e consapevolezza (Siamo stati bravi a stare insieme da lontani, ma sarà vero che rispondo solo se mi chiami / Fallo tu che forse non c’è un‘altra occasione per fare di me un codardo feroce).

Vita da fenomeni è la coscienza del tempo trascorso. Familiarizzare con quello che si è diventati implica imparare a conoscersi da capo, prendere in giro la malinconia e non diventarne vittime.

Il brano fa così: «Ormai non siamo buoni a fare tardi e non siamo più tanto bravi a fare i giovani / Sarà che siamo diventati grandi in questo mare pieno di pericoli / Non siamo neanche buoni a stare calmi non sapendo più quali sono i nostri limiti».

Chiude il gruppo Un po’ di pace, uno sguardo sul futuro che non rinuncia alla nostalgia (Te li ricordi quei discorsi sul futuro come fosse un gioco? Altro che poco, nelle mie ossa trovo i sogni tuoi).

Parlare degli altri per parlare di se stessi

E poi c’è Gli invisibili, il brano che meglio sintetizza i due sguardi di Tribù Urbana, quello che scava dall’interno e quello che si proietta fuori. Il pezzo parla di e a nome di coloro che nella vita si sono sentiti invisibili, perché a vent’anni hanno già «visto quattro vite», hanno finto di stare bene o hanno scelto tardi di ribellarsi.

Gli invisibili è una voce che diventa tante voci, un sentimento intimo che diventa universale, una parola che si fa slogan e, infine, un silenzio che diventa un grido di speranza.

Ermal, nel brano, canta così: «Siamo gli ultimi di questa lunga fila / Siamo quelli che ci manca ancora una salita / Quelli che vedi quasi sempre sullo sfondo/ Siamo gli invisibili che salveranno il mondo».

Ermal Meta non è un cantautore impegnato, allo stesso modo in cui non è un cantautore romantico. Le sue produzioni musicali dimostrano che sa affrancarsi da certe etichette: è un cantautore sensibile, capace di osservarsi e osservare, quindi di raccontare con uno stile personale e riconoscibile quello che vede.

Ermal Meta è un artista che sa vedere e dare, alle storie che vive, una forma poetica e leggera. Tribù Urbana lo conferma.

a cura di
Basilio Petruzza

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