“Perfect days” – la recensione in anteprima del nuovo film di Wim Wenders
Presentato al Festival di Cannes e distribuito da Lucky Red, “Perfect Days” di Wim Wenders arriverà nelle sale italiane a partire da oggi 4 gennaio.
Quello di Wim Wenders è un cinema labirintico che fa vorticare il pensiero. Una filmografia che porta alla riflessione, che ti fa smarrire nella ricerca della bellezza, nella contemplazione del Male e del Bene.
Un cinema che parla di esseri umani che vivono una guerra interiore, una lotta che distrugge anche gli angeli. Perché spaventa dover morire, dover essere umani, lasciare un carcere per tornare alla vita di sempre: alla famiglia, alla propria casa, ai vecchi amici. Quasi si preferisce una stanza con le sbarre.
Questo timore non condizionerà Hirayama, protagonista di Perfect Days, perché il Cinema di Wenders si risveglia, approdando ad un nuovo lido.
“Perfect Days”
Vincitore della Palma d’oro per il migliore attore all’ultimo Festival di Cannes, Koji Yakusho ci porta con sé nella sua quotidianità nei panni di Hirayama, un uomo qualunque il cui mondo ci apparirà più chiaro in seguito.
Tutte le mattine il protagonista concepito da Wenders si alza dal letto, si lava i denti, si veste e va a lavoro, come la maggior parte dei lettori di questo articolo.
L’attenzione del regista si focalizza, dunque, sul lavoro di Hirayama: quello dell’addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo.
Nella ripetizione delle sue attività quotidiane, ogni giorno si diversifica però da quelli precedenti per mezzo di piccoli dettagli simbolici: l’uomo si reca a fare acquisti in libreria, al negozio di musica, a raccogliere le piantine e fa nuovi – anche se pochi – incontri.
Ogni giorno si concede di cambiare la sua vita armoniosa ed equilibrata con una piccola attività, che svolge quasi rigorosamente in solitario.
Il silenzio
In Perfect Days i dialoghi sono poco frequenti poiché il protagonista trascorre le intere giornate in solitudine. Le uniche volte in cui si sente la sua voce sono quando il suo giovane collega, di tanto in tanto, cerca buffamente di strappargli qualche parola.
Il silenzio è, dunque, il secondo protagonista di questa storia. Che però, anche in questo caso, viene a tratti interrotto dalla musica di Patty Smith, di Lou Reed e altri artisti.
Per quanto riguarda la fotografia, quella utilizzata qui da Wenders è minimale: dopotutto si tratta di un film asciutto e descrittivo, dov’è interessante l’originale veste data all’assenza. Una veste zen e filosofica.
Commovente è la scena in cui Perfect Day – il capolavoro di Lou Reed, nonché il mio brano preferito – cattura l’attenzione dello spettatore, distendendosi interamente per tutta la durata di un comunissimo rituale di Hirayama: quello in cui si reca al lavoro.
La vita di Hirayama esemplifica a noi occidentali il senso quasi buddistico della meditazione. Il raggiungimento di uno stato di liberazione che, seppur schematizzato nelle sue attività quotidiane, è facilmente intuibile, anche se l’uomo non si è mai seduto a gambe incrociate pronunciando un “Om”.
Questa atmosfera di calma e serenità, in cui Hirayama svolge metodicamente le sue attività manuali, mi ha fatto rivalutare lo stress accumulato fino al momento dell’inizio del film non stiamo parlando di un monaco che medita in mezzo alla natura incontaminata, ma di un uomo che conduce una vita simile alla nostra e che, in una città frenetica, svolge un lavoro che per alcuni potrebbe essere causa di stress. Tuttavia, ciò che si percepisce mentre lo si osserva è la tranquillità di un meditante e, intorno a lui, la sacralità di un rituale.
La prova attoriale di Yakusho è eccellente, e lo dimostra anche la sua Palma d’oro, nonostante non abbia proferito più di una pagina di copione. Questo perché è riuscito ad interpretare il senso del film, il suo filosofico minimalismo.
Yakusho recita con gli occhi, con i mezzi sorrisi che gli illuminano il viso per un attimo quando ascolta una bella canzone, quando assapora il gusto delle piccole cose della sua quotidianità.
Conclusioni
Dopo anni passati tra Milano e Bologna, non ho ancora imparato a vivere e questo film me l’ha elegantemente sbattuto in faccia.
Quanti di noi non l’hanno ancora capito! Noi, che non apprezziamo le piccole cose, quella prevedibilità che ci fa sentire al sicuro, la bellezza insita nella ritualità.
Quanto dobbiamo ancora imparare dalla solitudine?
E dal silenzio?
E da quella strana quinta dimensione che oggi non conosciamo quasi più: la noia.
Non sappiamo più apprezzare i momenti vuoti, quelli in cui la riflessione può indurci alla creatività. La nostra esistenza ne è piena e noi ne abbiamo paura, preferiamo venire distratti. La vita, forse… è proprio questa la nostra più grande paura e la noia ce lo fa capire.
Qualcuno potrebbe ancora dire di annoiarsi? Perché alla fine basta scollare i reels su Instagram, per risolvere questo “dramma”.
Il film è, dunque, un invito ad imparare a vivere la propria esistenza, accompagnando il rito alla riflessione, come in una preghiera.
a cura di
Benedetta D’Agostino
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