“Austin”: l’anno zero di Post Malone

“Austin”: l’anno zero di Post Malone
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A circa un solo anno di distanza da “Twelve Carat Toothache”, torna Post Malone con il suo quinto album in studio, “Austin”

Diciassette tracce, l’esigenza di mostrare le sue fragilità come essere umano e non come l’hitmaker da 80 milioni di copie vendute a soli 28 anni: Post Malone rincorre l’anno zero con “Austin”, pubblicato lo scorso 28 luglio per Mercury Records/Republic Records.

Diciassette tracce, diciassette motivi per intraprendere un percorso, introspettivo quanto solitario, con l’obiettivo di scrollarsi di dosso tutte le sovrastrutture del suo personaggio.

Si parte dal titolo, “Austin”, come il suo nome di battesimo, per tracciare un manifesto intimo, a tratti insolito per i cliché dell’hip-hop contemporaneo: nessun featuring e la sua chitarra come unico bagaglio a mano.

Entriamo subito nel vivo: non è un album hip-hop

D’accordo, non è un album hip-hop o trap-pop o rap-pop.

È un disco pop – niente di più, niente di meno – contraddistinto dal melting pot sonoro che sta spopolando negli States da quasi un decennio: l’evoluzione della scena punk-pop con autotune e drum machine al seguito.

Il singolo “Chemical” racconta una struggente storia d’amore e “Sign Me Up”, pur ruotando sulla stessa tematica, tocca con maggiore sensibilità le corde del neo romanticismo (“If your love is a cult, then I’m in it”).

“Enough Is Enough” e “Landmine” descrivono con tenerezza il bivio di chi sta per raggiungere (e superare) i trent’anni, un ponte da attraversare con il solito rituale alcolico a portata di mano (“2 a.m. they ran out of lemonade, so I shot that vodka straight anyway”).

Il viaggio solca sonorità boogie con “Speedometer”, inseguendo i migliori Nirvana dell’album “MTV Unplugged in New York” nei brani “Don’t Understand” e “Something Real”.

Con “Novacandy” e “Mourning”, Post Malone rimane ancorato alla sua carriera incentrata sui brani da club, strizzando l’occhio all’indie pop con “Buyer Beware” e alle atmosfere synthwave di “Too Cool To Die”.

Nome in codice: ballad

Ampio spazio è destinato alle ballad acustiche che, con “Socialite”, “Overdrive” e “Hold My Breath”, lasciano respirare l’album durante l’ascolto. “Texas Tea”, con chiari riferimenti alla variante più alcolica del Long Island Iced Tea, aggiunge con cura quel dosaggio di whisky dub sufficiente per arricchire l’intera costruzione armonica del disco.

Tra aeroporti immaginari, coincidenze e ritardi, Post Malone plana con grazia sulle note di “Green Thumb”. In particolare, quest’ultima è tra le composizioni più ambiziose dell’album: una chitarra acustica e una sola voce che dialoga con la pianta di una sua ex.

La chiusura è sapientemente affidata a “Laugh It Off”, la migliore del disco, che incoraggia a trovare una chiave di lettura positiva ed ironica di fronte alle critiche e alle battute d’arresto personali (“And if I leanerd anything at all, smile”).

La fine dei vent’anni

Diciassette tracce, un album apparentemente lungo ma, in realtà, strutturato come un fulmineo bagagliaio di effetti pirotecnici da sparare con urgenza fuori dal palco. Difficile parlare di cambiamento, nonostante il timido tentativo di diluire gli esordi trap con un approccio più corale e ambiziosamente country.

Proprio per questo, risulta difficile capirne la destinazione: avvierà un nuovo percorso artistico o rappresenterà una fase circoscritta?

Con “Austin”, Post Malone si affaccia alla vita adulta, tenta di alienarsi, pur rimanendo fedele a se stesso e alle sue dipendenze. Un album che supera abbondantemente la sufficienza e che, con i suoi alti e bassi, è la colonna sonora perfetta per accompagnare l’atterraggio di un aereo durante l’estate.

Che sia una partenza o un arrivo poco importa. Ogni cosa giusta rivela sempre il suo contrario.

a cura di
Edoardo Siliquini

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