Apice: il cantautore ci racconta il suo viaggio musicale

Apice: il cantautore ci racconta il suo viaggio musicale
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Potete trovare dal 18 marzo su tutte le piattaforme “Attimi di sole”, il secondo disco di Apice, seguito in aprile da un tour promozionale

A qualche anno dall’esordio a lunga distanza dal disco “Beltempo” (2019), Apice torna oggi con “Attimi di sole“, un nuovo album dal retrogusto di resistenza, riflessione e ripartenza. Questo album appresenta un viaggio che attraversa la contemporaneità del singolo ma per parlare di tutti: nove “attimi di sole” per un disco che prova a riaccendere la luce.

Ciao Apice, benvenuto su The Soundcheck. Per prima cosa vorrei complimentarmi per l’uscita del tuo nuovo album “Attimi di Sole”. Ti va di raccontarci com’è stato il processo di creazione?

Lungo e faticoso come gli ultimi due anni: non poteva essere più sincero e coerente di così! Devi sapere che dopo aver pubblicato “Beltempo” mi sono ritrovato a fare i conti con una crisi creativa non da poco, credo sia normale succeda così ogni volta che vivi intensamente qualcosa e lo racconti, o provi a farlo, fino in fondo. Sentivo di aver esaurito un certo tipo d’interesse verso quella “poetica” e quelle strutture che avevano determinato fino a quel momento il mio modo di scrivere, e in più mi sono ritrovato come tutti nel mezzo di una “clausura” forzata che non ha propriamente dato slancio all’entusiasmo e all’ispirazione.

Ho impiegato tempo per ambientarmi, ho continuato a scrivere solo quando ne sentivo l’urgenza. Alla fine, dentro “Attimi di sole” sono raccontati effettivamente molto più di due anni di vita, mi sembra che questo biennio sia durato almeno un lustro; ho passato fasi diverse, ho sperimentato scritture diverse. Avevo anche discretamente paura che nel complesso potesse risentirne la coerenza dell’album, tant’è che inizialmente doveva essere un EP composto solo dalle tracce inedite. Poi alla fine mi sono accorto che, come tutte le persone noiose, parlo da sempre delle stesse due o tre cose, e che quindi il problema della “compattezza” non si sarebbe presentato. Sì, alla fine mi sembra un disco disorganicamente compatto.

Il lockdown è stato un periodo che è durato molto più a lungo di quanto chiunque si aspettasse, mi chiedevo come hai affrontato questo a livello emotivo, ha soffocato la tua creatività o ti ha ispirato a scrivere?

Credo di averti risposto già in parte sopra, diciamo che il mio lockdown comincia da ben prima dello scoppio della pandemia; io un po’ “chiuso” lo sono sempre stato, ho sempre utilizzato le canzoni come grimaldello per scassinarmi un po’ da dentro. Ho sempre dato molta più importanza alla mia condizione interiore che a quella esteriore, non mi sento di certo un santone ma quanto sto male dentro il fuori smette di esistere.

Anche se “il fuori” è una pandemia globale. Non sono spietato; è pura sopravvivenza, un individualismo un po’ becero di cui mi vergogno spesso ma che alla fine mi tiene in piedi da sempre. Di certo, il fatto che contemporaneamente al mio “blocco personale” si sia bloccato tutto il mondo mi ha dato la possibilità di recuperare quel terreno che stavo perdendo sull’altro da me. Alla fine, credo di essere uscito dalla pandemia ben più sereno rispetto a come vi ero entrato.

È bello vedere musicisti affrontare argomenti che riguardano tutti noi e che toccano l’anima attraverso canzoni che raccontano ciò che sta accadendo nel mondo. C’è qualche traccia a cui sei legato in particolare?

Tutte, naturalmente. Ma su tutte, credo di essere particolarmente legato a “Mia”. Per diversi motivi, uno su tutti perché credo sia la prima vera canzone d’amore che ho scritto. E’ difficilissimo scrivere canzoni d’amore, cosa pensate! E poi “Traslocare”, perché fotografa bene non tanto un momento preciso, quanto piuttosto una condizione che credo esistenziale: arrivi ad un certo punto e capisci che la vita è questo, un continuo e inesorabile abbandonare qualcosa per trasferirti dove ancora non sai.

Quali sono state le sfide più grandi della tua carriera fino ad ora?

Aver fatto un secondo disco, ma soprattutto continuare a credere di poter chiamare tutto questo “carriera”.

Chi o cosa ti ha ispirato a intraprendere una carriera nella musica? E qual è stata la prima canzone in assoluto che hai scritto?

Non saprei dire cosa mi abbia ispirato. Secondo me certe cose le fai anche senza ispirazione, l’ispirazione spesso è un po’ l’alibi di chi non accetta di essere altro rispetto a quello che vorrebbe. Sicuramente senza la mia famiglia, ispirazione o meno non avrei mai potuto sviluppare un linguaggio, sono stato certamente fortunato. Poi ripeto, per ora è ancora un gioco e spero lo rimarrà per sempre: la carriera, il guadagno è importante, ma lo è di più divertirsi.

Sembra una frase fatta, forse la è, magari ci aggiorniamo quando avrò comprato il mio primo attico. Per ora, l’unico guadagno è la gioia di aver scritto un altro album quando pensavi che il precedente sarebbe stato certamente l’ultimo: è così in ogni cosa della mia vita, sono un pessimista strategico. La prima canzone che ho scritto credo fosse un plagio di un brano di Francesco Guccini: avevo undici, dodici anni credo. Ero molto più vecchio di oggi, come direbbe Dylan. Sicuramente un bambino strano.

Se potessi cambiare qualcosa nel settore, quale sarebbe?

La spocchia degli cosiddetti “emergenti” come me: fossimo tutti un po’ più umili ed intelligenti, invece che starcene da soli nelle nostre camerette ad auto-celebrarci aspettando il treno della vita proveremmo a costruircelo, quel treno. Insieme: rilassiamoci, che non siamo nessuno e per diventare qualcosa abbiamo bisogno di tutti. Sono sembrato abbastanza moralista? Bene. Mi piace da morire.

Come ti senti a tornare a suonare dal vivo? Cosa dobbiamo aspettarci da questo tour?

Posso dirvi cosa mi aspetto io: che veniate. Perché sennò che senso ha continuare a fare dischi e rispondere a bellissime interviste come questa?

a cura di
Staff

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Martina Iudici

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