Amelia Rosselli: trilinguismo della fuga

Amelia Rosselli: trilinguismo della fuga
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Con Amelia se ne va l’ultima vittima di un secolo divoratore dei suoi poeti.

Biancamaria Frabotta

È l’11 febbraio del 1996, esattamente trentatré anni dopo il suicidio di Sylvia Plath, quando Amelia Rosselli decide di gettarsi dalla finestra della sua casa in via del Corallo a Roma. Ha sessantasei anni ed alle spalle una vita vissuta con fatica, fra persecuzioni politiche e fragilità intime.

Rosselli nasce a Parigi nel marzo del 1930. I genitori, Carlo Rosselli e Marion Cave, sono infatti in fuga dal regime fascista e riescono a trovare asilo in Francia. Qui trascorre la sua infanzia, prima che il padre e lo zio – i fratelli Rosselli – vengano trucidati dalla Cagoule.

Inizia così il lungo peregrinare della famiglia. La poetessa vive tra Francia, America ed Inghilterra.

Durante i camps estivi in America scopre e si appassiona alla musica. Inizia a studiare violino, pianoforte e composizione. È dopotutto un nuovo linguaggio per andare oltre le tre lingue che padroneggia, ancora con difficoltà, e approdare così a una comunicazione più inclusiva e globale possibile.

Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro.

Scappata dall’Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa nell’Ovest ove niente per ora cresce.

La scelta dell’Italia

Riesce a fermarsi definitivamente in Italia, prima a Firenze poi a Roma, solo nel 1948. Nazione che è sia patria d’origine che di adozione.

Proprio a Roma Rosselli ritrova i rapporti storici con amici e parenti paterni, come lo scrittore Alberto Moravia, cugino di Carlo. Ma, soprattutto, entra in contatto con l’ambiente dell’avanguardia musicale. Inizia a frequentare esponenti come Roman Vlad e Franco Evangelisti e a prendere lezioni di composizione da Guido Turchi. A quel periodo risale anche il suo primo contributo musicale per la rivista Diapason.

L’incontro con Rocco Scotellaro

Nell’aprile del 1950, mentre partecipa a Venezia al primo congresso partigiano La resistenza e la cultura, conosce Rocco Scotellaro con cui instaura da subito un profondissimo legame affettivo e intellettuale.

L’incontro con il poeta lucano rappresenta per Amelia un momento di svolta, sia per la sua scrittura che per la sua conoscenza del panorama letterario italiano.

Tramite Scotellaro, infatti, stringe rapporti con i meridionalisti Manlio Rossi-Doria, Gaetano Salvemini e Carlo Levi, e collabora ad alcuni studi linguistici ed etnomusicali inerenti alla cultura popolare del Sud Italia. Queste e altre ricerche la spingono a spostarsi frequentemente tra Roma, Londra e Parigi, all’epoca patria dei surrealisti come André Breton, che avrebbe influenzato la sua prima produzione in lingua francese. 

L’analisi, inoltre, dona nuovi stimoli alla ricerca artistica di Amelia, inducendola a teorizzare un possibile legame tra musica atonale e teorie junghiane

La sua vita adulta è costellata dai ricoveri in sanatorio, dove subisce elettroshock e shock insulinici. Uno dei più lunghi avviene proprio dopo la morte dell’amico Rocco Scotellaro al Sanatorium Bellevue di Kreuzlingen, in Svizzera.

At the blotching of dark the day’s calm fuzzed out into delirium, pyramid-shaped, high-ceilinged.

Nonostante le difficoltà dovute alla schizofrenia paranoide, diagnosticata in Svizzera, Amelia non smette di coltivare i propri interessi letterario-musicali. Arriva anche ad abbozzare il progetto per la costruzione di una macchina da scrivere che sia capace di fondere tra loro musica e scrittura. Gli anni successivi all’uscita dalla clinica sono quanto mai vivi e frenetici. 

Nonostante venga inizialmente respinta da editori come Lerici, Einaudi e Vallecchi, l’incontro con Elio Vittorini e, in particolare, Pier Paolo Pasolini sancisce il definitivo inizio della sua carriera di poetessa con la pubblicazione delle Ventiquattro poesie sul fascicolo numero 6 de Il menabò (1963). 

Amelia Rosselli e Rocco Scotellaro
Il trilinguismo

Nella sua prima produzione, composta trai 22 ed i 33 anni, Amelia utilizza le “sue” tre lingue, alternandole tra prose brevi e poesie. Questo materiale viene raccolto in Primi Scritti, pubblicato solo nel 1980 da Guanda. 

Quello dei Primi Scritti non è un plurilinguismo programmatico ma, piuttosto, la documentazione di un percorso formativo e di una poetica in divenire. Le dieci sezioni che compongono l’opera, sono eterogenee per carattere, genere, lingua e stile, e presentano l’indicazione per mano della scrittrice di una data di composizione.

Non sono apolide. Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito […]. Mia madre lo aiutò a fuggire e quindi lo raggiunse a Parigi. […] La seconda guerra mondiale poi scacciò la mia famiglia […] dalla Francia. Aver imparato l’inglese, quindi, oltre al francese, è dovuto alla guerra perché allora andammo in Inghilterra e da lì fuggimmo poi via Canada in America. […] io rifiuto per noi questo appellativo […]. Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo dei cosmopoliti; eravamo dei rifugiati. 

È la sezione Diario in Tre Lingue a dare piena forza alla spinta sperimentale di Amelia Rosselli. È composta da una serie di annotazioni, appunti privati e riflessioni scritte indifferentemente ora in lingua inglese, ora in francese, ora in italiano. 

Rappresenta un vero e proprio laboratorio, di cui è possibile rintracciare la logica, l’essenza ragionata degli incroci linguistici e lo scopo complessivo dell’opera: la ricerca di un’originalità espressiva

All’inizio degli anni ’60 decide di utilizzare prevalentemente l’italiano come unico idioma. Inaugura questa fase con Variazione Belliche, che esce nel 1964 per Garzanti.

Amelia Rosselli
La poesia

Amelia riesce a flettere la poesia a proprio piacimento, facendole perdere le coordinate a cui siamo stati abituati. Crea gabbie sulle pagine, alla ricerca della tridimensionalità e della perfetta forma cubica.

La poesia di Rosselli è in parte una questione di sopravvivenza ai fantasmi che popolano i luoghi, impossibili da esorcizzare. Ma, soprattutto, mette in scena la responsabilità che abbiamo nei confronti della nostra umanità e “del dovere di essere nel mondo, e parte del mondo”.

La morte – questa è la grande sfida – non esprime il soccombere alla sofferenza, la morte è il gesto che quella sofferenza ce la consegna in eredità.

Emmanuela Tandello

a cura di
Andrea Romeo

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