Kobe Bryant e il sogno di fare il rapper

Kobe Bryant e il sogno di fare il rapper
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Ora che Kobe Bryant è tristemente sulla bocca di tutti, come è giusto che sia per un fatto di cronaca di tale portata, non è un mistero che non è stato solo un cestista eccezionale.

Atleta straordinario non tanto per aver ereditato i geni giusti, sebbene fosse figlio d’arte, quanto per diretta conseguenza di un allenamento costante, massacrante, ininterrotto nonostante i tanti infortuni accumulati in trent’anni di pallacanestro, venti in NBA.

Tutti giocati con la canotta dei Los Angeles Lakers.

Smarcandosi decisamente dallo stereotipo dello sportivo quasi analfabeta, cliché ormai anacronistico e, semmai, adattabile solo a certi calciatori di casa nostra, l’ex-guardia, nella sua vita dopo il basket non solo ha saputo brillantemente rimettersi in gioco, ma ha dimostrato che aveva pianificato già da tempo il suo futuro.

Travasando fuori dal parquet la sua Mamba Mentality, formula che identifica un atteggiamento votato alla realizzazione dei propri obiettivi tramite determinazione, fiducia in sé stessi e lavoro quasi massacrante, il nostro è riuscito prima a vincere un Oscar, con il suo corto animato Dear Basketball, poi a diventare il mentore di una miriade di sportivi di tutto il mondo, infine a fondare un’accademia di pallacanestro rivolta ai giovanissimi.

Tutti traguardi raggiunti nell’arco di poco più di tre anni, dall’aprile 2016, giorno in cui appese le scarpe al chiodo, sino al tragico 26 gennaio scorso, data della drammatica scomparsa insieme alla figlia e sette persone, a bordo dello stesso elicottero che quella mattina si è schiantato contro una delle colline che circondano Calabasas.

Kobe Bryant, insomma, stava accumulando “titoli” anche lontano dalla palla a spicchi, dimostrandosi un business man caparbio, sagace quanto basta per affidarsi ai giusti esperti che potessero aiutarlo nei suoi numerosi intenti

Non solo. Nonostante alcuni episodi piuttosto controversi del suo passato, l’accusa di stupro del 2003, colpevole o meno che fosse, è un episodio che gli è costato quasi tutto, con la nascita delle figlie si è lentamente creata la forte immagine di un Bryant genuinamente innamorato di sua moglie, Vanessa, affettuoso e premuroso padre di Natalia Diamante, Gianna Maria Onore, tristemente scomparsa nello stesso incidente in cui ha perso la vita l’ex-atleta, Bianka Bella e l’ultima nata, Capri Kobe, orfana già dopo pochi mesi di vita.

La trasformazione da spietato e scontroso killer sul parquet, a solare e sorridente uomo di famiglia, ha finito per conquistare tutti, storici avversari compresi, una transizione ulteriormente cementificata dal recente interesse di Bryant per la WNBA, incentivata dal quasi certo approdo di Gianna nella lega femminile di basket, in un futuro che purtroppo non esisterà mai, ma comprovato da un supporto mediatico sempre maggiore.

L’uomo che si sta commemorando a qualsiasi latitudine in questi giorni, insomma, è immagine di un assoluto vincente, un eroe romantico che ha fatto numerosi sbagli, ma che ha dimostrato al mondo intero che con determinazione e volontà si può raggiungere qualsiasi obiettivo, nello sport e oltre.

Eppure, persino un vincente del suo calibro è incappato in qualche inevitabile insuccesso

Ben al di là delle finali perse e delle ultime orribili stagioni giocate con i Lakers, tra questi ne vale la pena citare uno in particolare, il tentativo fallito di imporsi anche nel mondo della musica.

Il figlio di Joe Bryant, detto Jellybean per il suo stile di gioco spesso imprevedibile, si mise in testa di fare il rapper già da giovanissimo, sul finire del 1993, durante il suo secondo anno di high school presso la Lower Marion. Grazie agli allenamenti di basket fece amicizia con Jermaine Griffin, coetaneo che giocava con lui nella squadra dell’istituto.

Complice un corso di scrittura creativa, nel contemporaneo tentativo di riappropriarsi delle proprie radici di adolescente afro-americano degli Anni ’90, dopo aver vissuto molti anni in Italia, Kobe e l’amico iniziarono a comporre rime quando conobbero Anthony Bannister, giovanissimo custode di una palestra in cui Joe Bryant andava ad allenare una squadra di pallacanestro femminile.

La futura stella dei Lakers e Jermaine lavoravano sui loro fondamentali, tiri, entrate a canestro, qualche schema, poi si rintanavano nell’ufficio di Anthony per imparare dai grandi dell’hip hop e, appunto, per provare a scrivere qualche testo.

Non passò molto tempo prima che Kobe iniziasse a manifestare la sua nuova passione anche a scuola

Come? Sfidando qualche compagno in battaglie di freestyle, finendo poi per lanciare il guanto di sfida agli MC che praticavano quest’arte da molti anni, dimostrando la stessa sicurezza dei suoi mezzi e l’identica voglia di migliorarsi progressivamente che sfoderava sul parquet.

Come raccontato da chi lo conosceva al tempo, in interviste più o meno recenti, ciò che motivava il giovane cestista non era la reale volontà di affermarsi come artista, quanto il desiderio di scrollarsi di dosso l’immagine del privilegiato, per riconnettersi a quella street culture in cui si identificavano tanti suoi coetanei.

A pochi anni dal concludere il suo percorso di studi alla Lower Marion, ad una distanza sempre minore dal suo ingresso nella NBA, evento che naturalmente ne avrebbe stravolto la vita sociale, Kobe Bryant insieme ad altri amici, Jermaine compreso, fondò i CHEIZAW, acronimo di Canon Homo Sapiens Eclectic Icon Zaibatsu Abstract Words, gruppo che iniziò a girare per tutta Philadelphia sempre a caccia di nuove battaglie freestyle.

Fu in questa cornice che Sony, desiderosa di investire sul sicuro campione NBA, che nel mentre aveva debuttato con i Lakers dopo il draft in cui fu scelto alla tredicesima chiamata nel 1996, mise sotto contratto il gruppo di Bryant.

Si trattò di una mossa strategica non proprio corretta, visto che il colosso giapponese, intromettendosi nelle dinamiche della band, finì per disintegrarla dall’interno, affinché ogni attenzione potesse così essere rivolta solo su Kobe.

Nel 1997 il cestista debuttò su un palcoscenico accompagnando il concerto di Sway & King Tech, duo hip hop che aveva un certo successo in California. Nel 1998 gli viene concessa una strofa nel remix di Hold Me, brano di Brian McKnight. Stessa cosa nel 1999 per Say My Name delle Destiny’s Child, forse il picco raggiunto da Kobe in veste di musicista.

Da quel momento in poi, difatti, si innescò un’inesorabile quanto fulminante parabola discendente, imboccata proprio dall’evento che, teoricamente, avrebbe dovuto rappresentare il vero inizio della carriera del giocatore NBA come rapper

Sony, difatti, annunciò l’album di debutto, Visions, atteso per il 2000. Il primo singolo K.O.B.E., con il featuring di Tyra Banks, venne tuttavia accolto con molta freddezza sin dall’All-Star Game dello stesso anno, palcoscenico scelto dal publisher come vetrina per il disco in arrivo.

Il feedback fu talmente negativo che Sony corse ai ripari, abbandonando un progetto già di per sé difficile da portare avanti visti i tanti impegni di Bryant con i Lakers e Adidas, che in quegli anni aveva investito milioni di dollari nel giovane in campagne marketing e capi d’abbigliamento firmati.

Si concluse così, prima ancora di essere iniziata, la carriera di Bryant come rapper.

Quello tra Kobe e la musica è stato un rapporto fugace, inizialmente genuino, come solo le passioni giovanili possono esserlo, poi influenzato dagli scopi commerciali di una grande major, piuttosto che da un reale interesse o da un’inequivocabile vocazione e talento.

Eppure, se ce ne fosse ancora bisogno, questo amore passeggero dimostra una volta in più la poliedricità di un grande uomo che ci mancherà immensamente, un cinque volte campione di NBA capace di portarsi a casa un Oscar, dopo un’adolescenza passata a fare battaglie di freestyle in giro per Philadelphia.

a cura di
Lorenzo Kobe Fazio

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