Lubo – la recensione in anteprima del nuovo film di Giorgio Diritti

Lubo – la recensione in anteprima del nuovo film di Giorgio Diritti
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Il 9 novembre nelle sale italiane uscirà “Lubo”, il nuovo film di Giorgio Diritti con protagonista Franz Rogowski, ambientato durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale.

Siamo negli anni Trenta e dalla Germania soffia un vento di guerra, che si ripercuote in tutta Europa.
In questo clima teso il governo svizzero dichiara la mobilitazione dei suoi cittadini maschi, così Lubo, il nostro protagonista nomade, si ritrova ad indossare la divisa per difendere e controllare la frontiera.

L’uomo, che un tempo manteneva sé stesso e la sua famiglia lavorando come artista di strada, è costretto ad accettare e parte verso il confine, convinto che quella situazione atroce prima o poi finirà.
Una notte Lubo riceve la visita di suo fratello, giunto per portargli tragiche notizie riguardanti la sua famiglia dopo l’intervento della polizia, e, da quel momento in poi, il suo atteggiamento non sarà più lo stesso.

Una tipica storia novecentesca

Tra le 6 pellicole italiane in concorso a Venezia, una di queste doveva per forza rivelarsi il classico film italiano da Festival.
Tratto da Il seminatore, il libro di Mario Cavatore, Lubo racconta la classica storia novecentesca europea con tutti i suoi clichè: dalla caccia ai figli con metodi illegali all’identità segreta, dai soldi guadagnati illegalmente alla galera, gli omicidi e la vita continuamente in viaggio.
Tutto questo nel corso della vita di un uomo, un nomade la cui famiglia viene distrutta con la forza e che continua a vivere spinto dal senso paterno, nella speranza di ritrovare i propri figli.

Tra Lubo e Ligabue

All’apparenza Lubo è, dunque, un film mainstream. Tuttavia, se analizzato più nel dettaglio, si nota come Giorgio Diritti riesca a concepire qui una formula adatta al contesto intellettualoide del festival italiano.

Il regista non lascia infatti spazio all’azione – che, in genere, caratterizza sempre un film di assassinii e di guerra – ma “serra i ranghi” – per utilizzare un’espressione militare – sull’intimità (anche se descritta in maniera poco accurata) del protagonista.
Stesso esperimento fu svolto dal suo precedente Volevo nascondermi, la cui scelta stilistica di inquadrare da vicino l’introspezione del protagonista rispetto al contesto si rivelò ancora più azzeccata.

Lì era la storia di Ligabue, un meraviglioso Elio Germano intimo e commovente. Qui è la storia di Lubo, un poco convincente Rogowski, in un film dalla struttura narrativa raffazzonata e superficiale.
Entrambi artisti, entrambi reietti, esclusi dal mondo per il loro essere diversi.
A differenza di Ligabue, però, Lubo si ribella (seppur pacatamente) e pianifica una vendetta lunga tre ore.

L’ipercorrettismo di Lubo

L’omonimo romanzo risulta animato da una passione che il Lubo cinematografico, purtroppo, non esprime, vivendo la sua vita da fuorilegge con molta correttezza. Anche l’aspetto più attivo che caratterizza il protagonista nel romanzo (in riferimento alle donne della sua vita) è qui attenuato.

Ci troviamo davanti ad un Cinema ipercorretto, emendato anche dove i suoi formalismi non sarebbero appropriati. E magari l’atteggiamento, più che essere abbottonato, necessiterebbe di una maggiore spontaneità.
Si parla di un uomo strappato dalla sua famiglia, che vive nel gelo delle trincee e si macchia di reati gravissimi. Un uomo senza scrupoli, anche nei confronti delle donne che ama.

La difficoltà dei romanzi di formazione

Lubo, inoltre, è un personaggio tratto da un romanzo di formazione, e, per questo motivo, dovrebbe evolversi dopo aver vissuto un dramma di quel genere. Egli vive una vita nuova, ma rimane lo stesso.

Il problema di questo film, a mio avviso, risiede nel fatto che il protagonista non si incattivisca mai davvero, risultando poco credibile, e in questo Giorgio Diritti avrebbe dovuto investigare maggiormente l’interiorità del personaggio per far risaltare la sua natura.

Nei film è sempre più difficile descrivere un personaggio, farlo evolvere, caratterizzarlo con sfumature interessanti. Il tempo è poco, e guardare e leggere sono attività che richiedono attenzioni diverse.
Sono in pochi i registi che sono riusciti nell’intento. Penso, ad esempio, al Walter White di Gilligan, al Barry Lyndon di Kubrick fino al Salieri di Forman: personaggi pieni di sfaccettature, descritti con uno sguardo sofisticato e attento al dettaglio.

Si nota, dunque, un’atteggiamento atarassico, imperturbabile, rivelante quasi un’incapacità di osare fino all’infimo, di scadere nell’ignobile che fa parte della vita e che rappresenta una possibilità in cui ognuno di noi può ritrovarsi nel suo percorso.

Diritti, dunque, si è vergognato della ripugnanza necessaria all’arte, e Lubo è il malfattore più abbottonato e pettinato che abbia mai visto.

a cura di
Benedetta D’Agostino

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