Commuoversi: “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino

Commuoversi: “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino
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Candidato al Premio Strega 2023, Mi limitavo ad amare te racconta la vita di Omar, Nada, Danilo e tanti altri bambini cresciuti tra le bombe della Sarajevo del ’92. Questa storia sembra arrivare al momento giusto, a trent’anni di distanza dalla guerra in Bosnia, la prima in Europa dopo la seconda guerra mondiale

Mi è capitato poche volte di emozionarmi leggendo. Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino è stato una di quelle.

Il titolo Mi limitavo ad amare te

Il titolo del romanzo, poi ripreso al suo interno, è un omaggio al poeta bosniaco Izet Sarajlic, che rimase a Sarajevo durante la guerra.

Cerco una strada per il mio nome
Passeggio per la città della nostra giovinezza
e cerco una strada per il mio nome.
Le strade ampie, rumorose
le lascio ai grandi della storia.
Cosa facevo io mentre durava la storia?
Mi limitavo ad amare te.
Cerco una strada piccola, semplice, quotidiana,
dove, senza dare nell’occhio al mondo
possiamo passeggiare anche dopo morti.
All’inizio essa non deve avere molto verde,
neppure i suoi uccelli.
È importante che in essa, sfuggendo alla persecuzione,
possano sempre trovare rifugio sia l’uomo che il cane.
Sarebbe bello se fosse lastricata,
ma, in fondo, neppure questa è la cosa più importante.
La cosa più importante è questa
che nella strada col mio nome
mai a nessuno tocchi una disgrazia.
Izet Sarajlić (1968)

Dopo il successo de Le assaggiatrici, Rosella Postorino torna con un romanzo dalla straordinaria intensità e profondità. Scritto in seguito ad un viaggio nei luoghi e alla raccolta di testimonianze, l’autrice ci propone un racconto storico – perché di Storia certo ce ne è parecchia –, ma soprattutto umano, dispiegato lungo un sentiero che appare un continuo sorgere di interrogativi destinati a rimanere senza risposte. Ci avventuriamo in una letteratura che unisce reportage e narrativa, che permette di toccare con mano l’intimità di una sofferenza condivisa da molti ancora oggi.

Il viaggio

Tra bombardamenti e spari di cecchini, nella Sarajevo del 1992, e più precisamente nell’orfanotrofio di Bijelave, incontriamo Omar, dieci anni. Attende una madre che non può prendersi cura di lui e biasima il fratello, Senadin, che sembra essersi dimenticato di lei.

Sempre lì, tra i tanti, si distinguono due grandi occhi celesti, quelli di Nada, e Omar si sente di nuovo al sicuro. Nada sa che il suo nome significa Niente in spagnolo e Speranza nella sua lingua madre, si chiede quale dei due le si adatti meglio. Le manca un dito e prova vergogna, tenta di nascondere la mano dentro la manica; non è stato un incidente di guerra.

È estate, fa caldo, i bambini vengono caricati su un pullman. Molti non vogliono partire, non vogliono lasciare. Che senso ha salvarsi da soli? Omar non ha nemmeno potuto salutare sua madre, potrebbe essere morta per una granata ma lui non ci pensa nemmeno, non è possibile.

Nada è ancora più sola ora: suo fratello Ivo è maggiorenne ed è rimasto in Bosnia per arruolarsi. In pullman si è seduta vicino a Danilo. Lui è diverso dagli altri, ma la guerra colpisce anche chi una famiglia ce l’ha.  

In un viaggio quasi dantesco, attraversano le macerie infernali del loro paese per giungere in un nuovo paradiso, l’Italia. Si portano dietro un bagaglio di sofferenza, inadeguatezza, speranza e rifiuti.

Sarajevo, 1992. Una donna corre nel cosiddetto “viale dei cecchini”. Foto di Tom Stoddart (Getty Images)
L’Italia

A partire dai luoghi degli istituti di suore in cui vengono accolti, a Monza o a Rimini, la loro storia si sviluppa per oltre vent’anni, si intreccia in legami destinati a sbiadire per lungo tempo e a ricolorarsi per piccoli attimi.

I bambini, poi ragazzi e infine adulti, diventano amici grazie al loro dolore. Soli, si stringono in lunghi abbracci di coraggio, tentando di salvare una fanciullezza ormai corrotta. Crescono, cercando di vivere con un fardello pesante mille corpi senza vita, tentando di affievolire il peso a vicenda.

C’è chi ce la fa, come Danilo, in costante corsa per fuggire dal suo passato; prova vergogna quando la madre e la sorella riescono a raggiungerlo intromettendosi nella sua nuova vita. C’è chi invece non riesce a staccarsi dal nido, dal ricordo, dalla Bosnia e dalla vita-prima: Omar viene dato in affidamento, ma sa Mari non è sua madre e considera suo fratello, entusiasta, un traditore.

“Affinché una donna senza figli possa allevare il figlio di un’altra, serve una quantità smisurata di sofferenza all’origine. Che la madre biologica sia morta o no, è comunque in corso un lutto. Dovresti saperlo, quando ti prendi in casa un orfano, pensava Omar, che se tu hai vinto è perché io ho perso. Mia madre, ho perso.” 

Passa il tempo, e solo Nada è costretta a rimanere con le suore: nessuno ha voluto adottare una bambina difettosa. Disegna, e pensa ancora a quel viaggio con Danilo, che la sua mano l’aveva addirittura stretta.

Sarajevo, marzo 1996. Foto di Mario Boccia
Siamo figli

Gli anni scorrono e noi – lettori – seguiamo le vicende dei protagonisti che si intersecano, si toccano, si fondono e si allontanano di nuovo. Tutti hanno una caratteristica in comune, sono figli.

Tutti lo siamo, lo siamo in quanto uomini, esseri umani, lo siamo biologicamente poiché ci troviamo ora in questo mondo. Eppure loro vivono la condizione di figli sradicati, abbandonati: il loro essere figli è stato irrimediabilmente danneggiato dagli eventi della storia che si è inserita con violenza nella loro di singole creature. Per loro quello della nascita è davvero stato un incidente.

E così la loro esistenza è contaminata da dubbi e domande: sono stato voluto o sono stato un errore? Mi hanno accettato o mi hanno ripudiato? Sono stato amato o sono stato dimenticato? La contraddizione di un amore che prima fisicamente ci ingloba per poi espellerci e allontanarci quasi con violenza, si accentua quando questa separazione avviene una seconda volta.

“È strano pensare che il corpo che ti ha messo al mondo non sia più al mondo, che il luogo da cui hai avuto origine sia scomparso, è come se il mare avesse inghiottito la terra in cui sei nato. Mi pare meno reale anche la mia esistenza, ora che le manca l’inizio, mi sento meno reale io.”

Di fronte ad un’esistenza infima e alla finitezza dell’essere umano, tutto ciò che conta, che riempie, che dà valore, sono i rapporti umani. Questo è ciò che chiaramente traspare del romanzo con tanta potenza. Dopo anni, Omar, Nada e Danilo si ritrovano, sono ora adulti, le circostanze del tutto differenti, ribaltate. Eppure loro ancora di riconoscono e si accolgono a vicenda.

La scrittura di Rosella Postorino

La scrittura di Rosella Postorino è sincera, intensa e coinvolgente, e il libro travolge con un profluvio di emozioni. Il romanzo è dinamico, si susseguono velocemente sequenze narrative e dialoghi, a cui vengono affidate le riflessioni dei personaggi. Questi vengono ritratti in modo limpido e commovente, in una narrazione che, pur affrontando tematiche forti e drammatiche, evita il rischio della retorica e della semplificazione.

I racconti dei fatti della guerra di Bosnia sono contenuti in brani dai diversi stili narrativi sparsi tra le pagine, che pur non tralasciano di riferire le crudeltà subite da uomini, donne, bambini.

Rosella Postorino racconta la guerra dal punto di vista dei bambini, con focalizzazioni che continuamente cambiano per dare voce a tutti i protagonisti, a tutte le diverse esperienze. Dare a loro la parola significa passarla a tutti i bambini che ancora oggi sono costretti a fuggire da una guerra nel tentativo di ricostruire la loro vita in un nuovo paese, lottando per ricucire lo strappo con il proprio passato e trovare un posto nel presente.

“Cosa facevo io mentre durava la Storia?” Nada non capì. “Che hai detto?” “È una poesia.” Danilo aveva le mani sotto la nuca, i gomiti aperti. “È tua?” Rise: “No che non è mia”. Nada avvampò. Non solo l’aveva toccata senza un minimo di tenerezza, non solo aveva evitato di baciarla, quasi fosse disgustato dalla sua bocca, dall’interno di lei, adesso si prendeva pure gioco della sua ignoranza. […] Nada proseguì a camminare, senza un saluto, Danilo ascoltò il fruscio delle Converse che sbattevano l’una contro l’altra, finché non fu troppo lontano. Solo a quel punto, ad alta voce, disse: “Mi limitavo ad amare te”, completando la strofa. Chiuse le palpebre e si espose alle accuse delle stelle.” 

a cura di
Elena D’Ercole

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