Clutch – Fabrique, Milano – 26 novembre

Clutch – Fabrique, Milano – 26 novembre
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La granitica formazione del Maryland torna finalmente in Italia dopo quattro anni, supportata da Tigercub e Green Lung. Sono andato (molto volentieri) a sentirli per voi.

Clutch: un nome che non puoi non conoscere se ami lo stoner o il blues rock. Un piccolo recap per chi non avesse il piacere: formatasi nel lontanissimo ’91, è una di quelle band che non mollano mai, infatti hanno pubblicato regolarmente album e fatto tour senza sosta soprattutto negli States dove hanno all’attivo un totale di 1863 live (fonte: setlist.fm). Una popolarità ottenuta sudandosi settemila camicie e tutta meritata. Fra le loro influenze possiamo distinguere chiaramente, oltre al classic rock nel senso più completo, Black Sabbath, Fugazi, ma anche l’hardcore di Minor Threat e Bad Brains.

Ma torniamo a questa lunga serata al Fabrique, quasi un festivalino, che inizia e finisce presto: ad aprire le danze troviamo i Tigercub alle ore 18.45, a seguire Green Lung alle 19.30, per poi arrivare ai nostri alle 20.40. Alle 22.10 è tutto finito e potete andarvene a nanna.

Tigercub

I Tigercub sono una band che non conoscevo. Affondano le loro radici a Brighton, e germogliano nel 2011. Ci propongono un genere più leggero e melodico (a tratti pop) rispetto ai loro compagni di tour ma sempre basato su sonorità vintage e fuzzeggianti.
Nonostante non siano molto conosciuti, riescono a scaldare la folla per ciò che verrà dopo. Peccato per il volume audio ridicolo al loro riservato – in quanto band d’apertura – che non permette al pubblico di apprezzare appieno l’energia che dovrebbero trasmettere. Anche l’orario d’inizio non gioca a loro favore… Insomma: spero di poterli ritrovare su suolo italiano in una serata che sia a loro più congegnale.

Jamie Stephen Hall dei Tigercub
Green Lung

Un nome davvero eloquente, arrivano da Londra ed esistono dal 2017. Avevo letto parecchio su di loro. Vengono osannati dalla critica e questo mi fa automaticamente storcere il naso ma – ma! – alla fine mi trovo pienamente d’accordo con quanto ho trovato in rete.
I Green Lung DOMINANO il palco. Portano la “pacca sonora” che mancava ai loro colleghi, ma non solo: il genere era più pesante e oscuro ma anche più definito, l’estetica più curata, la presenza scenica più energica. Il cantante Tom Templar aveva in mano la situazione – il palco era la sua casa e ci si muoveva senza timore di disturbare – accompagnato nelle sue mosse da quell’altro personaggio chiamato Scott Black, chitarrista, che sembra ripescato direttamente da Woodstock ’69.
Se non li conoscete vi consiglio di andarli a sentire, e di corsa – soprattutto se vi piace tutto quel filone di musica che discende dai Black Sabbath che va molto di moda al giorno d’oggi ma nel quale è difficile trovare qualche band che abbia davvero qualcosa da dire. Non vedo l’ora di ritrovarli dal vivo.

Tom Templar e Scott Black dei Green Lung
Clutch

I padroni di casa iniziano puntuali alle 20.40, che è prestissimo, ma deduco che ciò sia dovuto agli impegni del tour che stanno svolgendo. La sera dopo, infatti, suonano in Spagna, e il viaggio è lungo.
Questa premessa per dire che, anche se non sono proprio una band giovanissima, non hanno intenzione di mollare.
Qua è il cantante Neil Fallon che tiene in piedi la serata. Lo troviamo molto energico sul palco e la sua voce è paurosamente potente, sovrasta gli strumenti e trascina il pubblico attraverso i brani.
Mi aspettavo di trovare più presenza scenica da parte dei compagni che invece restano relegati nelle loro posizioni senza muoversi o interagire con il pubblico. Il chitarrista Tim Sult se ne sta immobile davanti alla sua pedaliera e appare irreale come il suo modo di suonare sia così trascinante e deciso: un modo di essere che mi ricorda un po’ quel signore oscuro di Robert Fripp.

Neil Fallon dei Clutch


A parte questo particolare, il sound è potente, le canzoni scorrono una via l’altra senza accennare a cali di interesse da parte del pubblico che ho trovato davvero affiatato anche se di età mediamente alta.
Ho apprezzato davvero quanto siano una band live nel senso più classico: un fondale semplice, con la grafica del gruppo (niente animazioni video), giochi di luci non a tempo con le canzoni, e la scaletta che varia ad ogni concerto. Ritengo tutto ciò un valore aggiunto in un’epoca in cui ciò che avviene sul palco viene pianificato nei minimi dettagli. Rende il tutto più live e positivamente grezzo.
Riguardo alla scaletta, di lunghezza un’ora e mezza, hanno dato spazio ai brani di diversi dischi in modo equo e ai grandi classici, come “Electric Worry” e “In Walks Barbarella”. È risultato di grande effetto, come primo brano, “Slaughter Beach”.

a cura e foto di
Marco Zerbinati


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Marco Zerbinati

Classe '96, cresce nella bassa mantovana con un basso elettrico in una mano e una fotocamera nell'altra senza mai mollare la presa. Fotografa e scrive di musica per thesoundcheck.it dal 2021.

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