Eddie Vedder, “Earthling”. Una domanda: perché?

Eddie Vedder, “Earthling”. Una domanda: perché?
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Il terzo disco solista per Eddie Vedder (quarto, se si considera la massiccia partecipazione alla colonna sonora di “Flag Day”) è un minestrone di cose senza soluzione di continuità.

Eddie Vedder è diventato uno dei pilastri di un certo tipo di rock. Vuoi per la carriera coi Pearl Jam, vuoi per il suo personaggio da bravo ragazzo impegnato nei diritti di qualsiasi cosa. È facile che si crei entusiasmo per qualsiasi cosa faccia e possa e che lo veda protagonista. Entusiasmo che è diventato curiosità coi singoli “Long Way” e “The Haves”: pezzi molto soft, ma che puoi aspettarti da Eddie Vedder prossimo ai 60 e che magari vuole concentrarsi in qualcosa che non può fare (stranamente) coi Pearl Jam.

Arriva poi “Brother The Cloud”, che sembra una outtake di “Gigaton”, solo più sconclusionata e senza Mike McCready o Stone Gossard che possano correggere il tiro. Lo si nota soprattutto in quel break senza senso verso metà brano, dove il cantante starnazza con fare “autorevole”, salvo poi tornare a quel mood da “Ho ascoltato Springsteen per secoli e lo attualizzo ora, nel 1996”. Ma siamo nel 2022.

Bruce Springsteen cerca di non urtare la sensibilità di Eddie Vedder (notare come Springsteen sembri molto più giovane di Vedder)
La curiosità muta in (vacua) speranza

L’approccio con “Earthling” è dunque destabilizzante sin dai singoli. Lo è ancor di più quando, disco alla mano, l’opener “Invincible” accoglie l’ascoltatore con quel fare da “More Than Feeling” dei Boston con meno mordente e che incontra un producer innamorato del riverbero. La destabilizzazione continua a percuotere chi ascolta con “Power of Right”, che ha tutt’altro stile e un battito di mani che fa inorridire; arriva poi “Long Way” e inizi a chiederti perché Eddie non abbia incentrato tutto “Earthling” su quelle sonorità, dove non c’è nulla di nuovo ma dove nulla è (apparentemente) forzato.

Il problema che si percepisce da subito è macroscopico: un’accozzaglia di idee buttate senza soluzione di continuità in un unico album. Per quanto uno possa godere sulla ripetitività e sulle iper saturazioni chitarristiche di “Good and Evil”, questo è un brano che, per come è stato arrangiato, qui non ha senso di esistere; stessa cosa dicasi per il simil punk di “Try” e quel pseudo-country di “Picture” (carino, peccato duri due minuti di troppo).

“Rose Of Jericho”, con un qualche accorgimento in più, poteva essere un discreto brano targato Pearl Jam, invece la troviamo nella tracklist di un disco solista sconclusionato. In questo tritarifiuti si salva (a stento) la dichiarazione d’amore allo stile di Bruce Springsteen “The Dark”: banale, derivata, in una posizione della tracklist senza senso, ma almeno non dà così fastidio.

Una sola domanda: Eddie, perché?

In questi giorni sono stati pubblicati diversi contenuti riguardo “Earthling” di Eddie Vedder. La maggior parte converge col pensiero, con la domanda del qui presente: Eddie, perché? Perché attorniarti di signori musicisti come Chad Smith e Ringo Starr alla batteria, l’ex Red Hot Josh Klinghoffer alla chitarra (ecco perché tutti quei riverberi…), perché ospitate di pregio come sir Elton John se poi metti tutto insieme alla rinfusa?

Per di più, il sound non prende: è scialbo, falsamente adrenalinico. Gli episodi migliori, con una vera dignità, sono i primi due singoli “Long Way” e “The Haves”. Aggiungiamoci di straforo “Mrs. Mills” solo per bontà divina. Tutti brani, come vedete, che hanno un ritmo compassato, più calmo, dove c’è più ragionevolezza anche nella composizione sonora. Ma sono tre libri ben ordinati in una libreria presa a colpi di mortaio.

“Earthling” è il garage in cui a fatica capisci cosa c’è sugli scaffati. Ti accorgi che è presenta anche l’auto solo perché ci sbatti contro il ginocchio. Tutto terribilmente confuso. D’accordo la libertà creativa, ma serve un minimo di cognizione di causa.

a cura di
Andrea Mariano

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Andrea Mariano

Andrea nasce in un non meglio precisato giorno di febbraio, in una non meglio precisata seconda metà degli Anni ’80. È stata l’unica volta che è arrivato con estremo anticipo a un appuntamento. Sin da piccolo ha avuto il pallino per la scrittura e la musica. Pallino che nel corso degli anni è diventato un pallone aerostatico di dimensioni ragguardevoli. Da qualche tempo ha creato e cura (almeno, cerca) Perle ai Porci, un podcast dove parla a vanvera di dischi e artisti da riscoprire. La musica non è tuttavia il suo unico interesse: si definisce nerd voyeur, nel senso che è appassionato di tecnologia e videogiochi, rimane aggiornato su tutto, ma le ultime console che ha avuto sono il Super Nintendo nel 1995 e il GameBoy pocket nel 1996. Ogni tanto si ricorda di essere serio. Ma tranquilli, capita di rado. Note particolari: crede di vivere ancora negli Anni ’90.

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