“Gli unici indiani buoni”: l’horror tra folklore e denuncia sociale

“Gli unici indiani buoni”: l’horror tra folklore e denuncia sociale
Condividi su

Vincitore del Bram Stoker Award e del Shirley Jackson Award, Gli unici indiani buoni è un romanzo di Stephen Graham Jones, uscito in Italia nel 2023. L’autore è un nativo americano appartenente alla tribù dei Piedi Neri. Nelle sue opere tratta spesso tematiche legate alle sue origini e i suoi libri variano dal genere fantascientifico, al thriller fino all’horror.

In patria ha pubblicato più di venti romanzi.

Trama

È il giorno del Ringraziamento in una riserva indiana ai confini del Canada. Quattro amici, Lewis, Ricky, Gabe e Cassidy, decidono di infrangere il regolamento della riserva inoltrandosi nella zona riservata agli anziani. Una volta entrati, si mettono a caccia di cervi wapiti.

Quello che succede dopo rimarrà impresso nelle loro menti e li perseguiterà negli anni a venire. Quel giorno infatti, uccidono, oltre ad altri cervi, una femmina di wapiti e il cucciolo che porta in grembo. Ma la legge indiana parla chiaro: niente caccia nella zona riservata agli anziani.

Il conto da pagare verrà recapitato loro, puntuale, dieci anni dopo. Attraverso un’oscura presenza metà umana e metà animale, che inizierà a perseguitare ognuno di loro.

I personaggi

Ricky, scappato in North Dakota per non dover fare i conti col passato, trova lavoro in una compagnia di trivellazione. Ne diventa il “capo”, perché secondo i bianchi che lo assumono, “gli indiani sopportano meglio il freddo”. In realtà il suo obiettivo principale è prendersi il suo primo stipendio e fuggire a Minneapolis.

Una sera in un bar, dopo parecchie birre di troppo, esce fuori in cerca di un bagno. La guardia sempre alta perché un indiano con una birra in mano è un bersaglio facile, sempre.

Ad un certo punto si sente osservato, prima dagli operai bianchi in attesa di entrare nel bar. Poi da un cervo wapiti, o da diversi cervi…

Lewis è l’unico della banda che ha ancora gli incubi di quella terribile notte, che lui chiama il Classico del Ringraziamento. La sua mente ripercorre la scena dell’animale martoriato ogni giorno.

Forse perché è stato proprio lui a iniziare il massacro e forse perché ha conservato la pelle della wapiti nella sua abitazione. Ormai quell’animale è diventato la sua ossessione.

Gli sembra di vedere la sua ombra ovunque, in casa sua, tra le pale del ventilatore, in quella maledetta lampadina che non riesce ad aggiustare e persino in quella sua collega indiana, che sembra avere un debole per lui. Lui è anche l’unico sposato con una ragazza bianca che, a differenza di quello che dicono i suoi amici, ama e da cui è ricambiato in maniera sincera. Arriverà a dubitare persino di lei.

Gabe e Cassidy stanno cercando di redimersi in diversi modi. Gabe è un attaccabrighe che sta provando a riconquistare il rapporto con sua figlia, ormai in frantumi. Lei, Denorah, è una stella nascente del basket e avrà un ruolo importante nella vicenda della wapiti.

Cassidy si è trovato un buon impiego e cerca la salvezza tramite la sua fidanzata, Jo, una nativa della tribù Crow, dal temperamento tosto.

Sia Gabe che Cassidy parteciperanno alla cerimonia indiana della “capanna del sudore” o “Inipi”. Il rito consiste nel rinchiudersi dentro una capanna indiana per diverse ore allo scopo di purificare fisico e spirito e ricongiungersi alla Madre Terra. L’ambiente caldo, umido e buio della tenda dovrebbe richiamare il grembo materno e aiutare la persona a riconnettersi con sé stessa e con la natura.

Proprio durante questo rito importantissimo il passato ritornerà a bussare alla loro porta e dovranno rispondere.

Lo stile e i temi del romanzo

Il romanzo mischia folklore indiano e scene da horror splatter, una cosa abbastanza inedita.

Il villain principale è rappresentato da una bestia metà donna e metà wapiti, un essere che deriva dalle antiche leggende dei Piedi Neri.

Le scene cruente sono descritte nei dettagli e riguardano spesso animali, quindi è sconsigliata la lettura a chi fa effetto questo tipo di violenza.

Lo stile è senza dubbio originale, i punti di vista dei personaggi cambiano di continuo. Nel giro di poche righe, prima viene esposto il pensiero di un personaggio, poi quello di un altro. Bisogna prestare molta attenzione per seguire il filo della storia.

Nel romanzo, inoltre, le scene dove vengono descritte delle partite di basket sono frequenti e talvolta ridondanti. Queste possono risultare un po’ complicate da seguire per un “non addetto ai lavori”, che non conosce questo sport. Forse questi possono essere considerati dei difetti, perché a volte la lettura risulta difficoltosa ed esageratamente prolissa.

L’opera di Graham Jones è anche un pretesto per parlare delle difficoltà che i nativi devono affrontare nella società americana odierna. Ricky, Lewis, Gabe e Cassidy sono infatti degli outsider, non si sono mai davvero inseriti nella loro comunità a prevalenza bianca. Ogni decisione, ogni passo e ogni errore che compiono viene giudicato in quanto indiani, come se non fossero uguali a tutti gli altri.

Anche Denorah, la figlia di Gabe, nonché campionessa della squadra di basket della scuola, subisce razzismo dai propri compagni. L’autore vuole spiegarci che non importa quanto questi personaggi si siano pentiti dei propri errori o siano brave persone, gli indiani rimarranno sempre, e prima di tutto, indiani agli occhi dei bianchi. Non a caso il titolo del romanzo allude ad una celebre frase detta dal generale Philip Sheridan durante i conflitti tra coloni bianchi e nativi americani: “Gli unici indiani buoni sono gli indiani morti.”

a cura di
Silvia Ruffaldi

Seguici anche su Instagram!
LEGGI ANCHE: “Grande meraviglia” di Viola Ardone
LEGGI ANCHE: La Storia e Io: Anime complesse
Condividi su

Silvia Ruffaldi

Silvia ha studiato Scienze della Comunicazione a Reggio Emilia con il preciso scopo di seguire la strada del giornalismo, passione che l’ha “contagiata” alle superiori, quando, adolescente e ancora insicura non aveva idea di cosa avrebbe voluto fare nella vita. Il primo impatto con questo mondo l’ha avuto leggendo per caso i racconti/reportage di guerra di Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. Da lì in poi è stato amore vero, e ha capito che se c’era una cosa che voleva fare nella vita (e che le veniva anche discretamente bene), questa doveva avere a che fare in qualche modo con la scrittura. La penna le permette di esprimere se stessa, molto più di mille parole. Ma dato che il mestiere dell’inviato di guerra può risultare un tantino pericoloso, ha deciso di perseguire il suo sogno, rimanendo coi piedi ben piantati a terra e nel 2019 ha preso la laurea Magistrale in Giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. Delle sue letture adolescenziali le è rimasto un profondo senso di giustizia, e il desiderio utopico di salvare il mondo ( progetto poco ambizioso, voi che dite ?).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *