“Una minima infelicità” di Carmen Verde

“Una minima infelicità” di Carmen Verde
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Ho lasciato decantare la lettura di questo libro dentro di me, per accoglierne più profondamente gli effetti. Una minima infelicità, edito Neri Pozza, è un romanzo privo di colpi di scena ma che si diffonde piano nel lettore con l’intento di rimanerci.

Carmen Verde esordisce con questo romanzo candidato al Premio Strega 2023.

L’autrice utilizza una lente per entrare dentro la vita di una madre e una figlia, cercando di ingrandire, attraverso la scrittura, gli stati d’animo, le emozioni e i tumulti esistenziali della ragazza che ama sua madre e la considera inarrivabile. 

Anna è una bambina “speciale”, così la definisce suor Agnese quando dice a Sofia Vivier, sua madre, che doveva essere controllata.

Anna è una bambina che non cresce fisicamente come le altre è minuta e taciturna e di questo sua madre si cruccia per molto tempo fino a quando non si dimentica anche di lei, oltre che di sé stessa.

Come me, Sofia Vivier si sottometteva al volere altrui. Più la vita la spingeva in basso, più lei piegava le esili ginocchia, fremendo di un oscuro, inconfessato piacere, con l’assoluta certezza di meritare ogni castigo.

Una minima infelicità

Ogni giorno Anna vive in funzione di sua madre e, spesso in silenzio, rimugina su ciò che lei non le dice. Sofia è una donna fragile, insoddisfatta della sua vita e infedele al marito, un noto commerciante di stoffe, un uomo accondiscendente che rimane in disparte.

A sconvolgere la loro routine è Clara, la persona che da un certo momento in poi si occupa di “controllare” Anna e mandare avanti la casa.

La bambina non ha altro esempio che quello di sua madre e di sua nonna, donna altrettanto infelice, e non sembra provare a cercare una via d’uscita: per lei la vita sta tutta dentro quel corpo minuto che condivide integrandolo in quello della madre, facendosi poi carico di tutta la sua infelicità.

Anna non ne cerca le cause, lo accetta così come accetta di vivere senza fantasia, senza aspettative.

Il suo racconto crea angoscia, lascia perplessi su come si possa riuscire a vivere cercando di ridurre sempre di più ciò di cui si ha bisogno, accontentandosi, appunto, di una minima infelicità

Cosa ho apprezzato di Una minima infelicità

Di questo testo ho apprezzato moltissimo la scrittura minimalista. Le frasi sono spesso lasciate all’interpretazione del lettore, che si trova a guardare nella lente che inquadra solo poche cose alla volta. E man mano diminuiscono in un ingrandimento finale della sola protagonista di questa opera: l’infelicità perpetua.

Mi sono piaciute anche le fotografie presenti alla fine dei paragrafi, poche righe per mostrare lo stato d’animo o un particolare atteggiamento delle persone nella foto:

In questa ho l’aria triste. Non è indispensabile essere felici.

L’infelicità in questo romanzo sembra sia una possibilità.  

Anna accetta di averla ereditata e la porta avanti come un qualcosa che le appartiene e di cui non può fare a meno.

Sembra un romanzo di formazione al contrario, dove non c’è nessuna evoluzione ma anzi un rimpicciolimento e mi sono chiesta quale sia il vero intento della scrittrice.

Mi è sembrato di intravedere due risposte, la prima credo sia la volontà di mostrare il mondo da un punto di vista diverso, come quello di una persona che non è cresciuta, quindi, che vive in una condizione di confronto continuo con gli altri che non potrà mai essere alla pari.

Ci fa mettere nei suoi panni per farci sentire cosa si prova, cosa si vede.

Questo romanzo parla anche di dipendenza affettiva, il rapporto madre e figlia diventa una prigione. Anna attende solo un gesto da sua madre che non arriva mai: uno sguardo o una carezza. Rimane in attesa, pensando di non essere mai abbastanza per lei.

Neanche dopo la morte della madre Anna riesce a riprendersi, perché ormai è troppo abituata ad aspettarsi e a sognare il minimo, per poter pensare di avere più che una minima infelicità.

Infine anche i luoghi, come la casa dove si svolge quasi tutta la storia, racchiudono una memoria, e pur chiudendo le stanze, quando questa è diventata troppo grande per una sola persona, ciò che rimane è il ricordo dei giorni passati e nessuno spiraglio:

Persino il mio corpo ha scelto per me l’essenziale, sapeva di non essere nato per grandi cose.

Di certo quello rappresentato è un caso limite che però ci permette di avere un punto di vista che magari non ci è capitato di considerare.

E quindi davvero l’infelicità si eredita? O si può fare sempre qualcosa? Tu cosa ne pensi?

cura di
Anna Francesca Perrone

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Anna Francesca Perrone

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