La rivoluzione Dolche: quando la musica è un inaspettato Exotic Diorama

La rivoluzione Dolche: quando la musica è un inaspettato Exotic Diorama
Condividi su

Exotic Diorama è l’album di debutto del nuovo progetto di Dolche, cantautrice e polistrumentista italo-francese, all’anagrafe Christine Herin.

Scritto e realizzato tra New York, Roma, Beirut e Visby, dal 23 Ottobre disponibile in digitale su tutte le piattaforme streaming, Exotic Diorama è un disco speciale che tratta tematiche importanti: da quella LGBTQ+ alla violenza sulle donne. Un album intenso e raffinato, risultato di un lungo lavoro di ricerca che nasce dalla fusione di molteplici suoni creati da Dolche in studi e tempi distanti fra loro.  

Abbiamo avuto l’occasione di parlare con lei di questo suo ultimo progetto e di molto altro.

Ciao Christine, grazie prima di tutto per la possibilità di condividere con te alcune riflessioni sul tuo album: si tratta davvero di un mondo incantato, esotico quanto basta per perdersi nell’immaginazione dell’ascolto. Quali sono i mondi raccontati dai tuoi “diorami”? Perché proprio questo titolo?

Grazie a te per dedicarmi questa intervista. Di questi tempi la musica è messa a dura prova e mi fa molto piacere vedere che ci sono ancora tanti giornalisti e giornaliste interessati a scoprirne di nuova.
Per rispondere alla tua domanda credo che sia utile immaginare Exotic Diorama come una foglia o una goccia d’acqua osservata all’improvviso al microscopio. I mondi che racconto sono tutti quelli che fanno parte del mio corpo come esperienze sensoriali ed emotive.

C’è il mare trasparente sotto il sole schiacciante di Cuba, c’è uno spicchio d’aglio condito mangiato a Beirut, c’è la rugiada la mattina sui fili d’erba nel mio villaggio di alta montagna, c’è il tocco della mano di mia moglie sui miei occhi e poi il mio tocco sulla pancia a scovare i movimenti del figlio che tra pochi giorni nascerà. Profumi orientali e di terra umida si mescolano così come tutte le note che ho amato e amo nella vita, dalla musica classica al punk. Tutte insieme, guardate da lontano, fanno il mio album ma poi, scendendo in ogni canzone, se ne scoprono le diverse nature.

Il titolo deriva proprio da questo e dal fatto che a casa mia, dove la musica davvero non l’aveva mai fatta nessuno prima di me, io sono sempre un po’ guardata come una pappagallo esotico quando torno in visita.

Dolche – ph: Griffin Shapiro
Sei un’artista poliedrica: canti in inglese, francese, italiano e suoni la quasi totalità degli strumenti presenti nel tuo album. C’è forse una lingua e uno strumento in cui ti riconosci maggiormente, in cui riesci ad esprimerti in maniera più immediata?

Se è per questo ce n’è anche una a metà tra spagnolo e francese e ho fatto anche la follia di cantarne una con frasi in cinese, arabo e giapponese grazie all’aiuto (e la pazienza!) di alcuni miei amici. Le lingue sono strumenti fantastici e assomigliano alla musica con tutti i loro suoni e ritmi diversi. E come nella musica anche nelle lingue io ho il mio stile: non ne parlo senza errori nemmeno una, ma metto del mio in tutte e poi alla fine l’importate è comunicare più che comunicare perfettamente. Al francese di sicuro sono molto legata e quando compongo i testi spesso mi vengono prima in francese.

Quanto agli strumenti se ci pensi sono le lingue della musica. Uno stesso concetto si può dire in tanti modi diversi. La mia prima passione però non svanisce mai…il basso elettrico. Lo trovo lo strumento più sexy che esiste. Se non sai godere dei piaceri della vita non puoi suonarlo bene.

La tua immagine è molto ben definita e particolarmente impattante: vuoi raccontarci la ricerca iconografica e il percorso che ha portato alla nascita di Dolche?

Questo è stato l’unico percorso all’indietro. Perché ho capito l’importanza di sapere da dove vengo per poter andare avanti. Mi sono riappropriata dei miei luoghi d’infanzia, della loro aspra natura, del loro carattere tutt’altro che raffinato con un moto quasi primordiale. Ho dovuto allontanarmene, fuggirne quasi pur di poter diventare chi sono sia a livello personale che professionale e insieme mi sono portata dietro tutto un bagaglio preziosissimo che ci sono voluti anni per riconoscere, amare e perdonare.

Le corone di fiori che porto e le corna sono una citazione di qualcosa che nei miei occhi di bambina è impresso a fuoco come l’immagine della bellezza. Le mucche, le reine (regine le chiamiamo), che quando tornano alla fine dell’estate dai pascoli alpini vengono adornate e festeggiate da tutta la valle. Queste divinità pagane, questa fusione con la natura, quanto più ostile e rigida e tanto più amata, mi appartiene da che ho memoria. Dolche è nata quando ho fatto un irrefrenabile slancio in avanti e mi son sorpresa anche a riconquistare il mio passato.

Dolche – ph: Ivon Wolak
Quanto resta di Naif Herin nella Dolche di oggi?

Tutto. Non si taglia la vita in pezzi ma si fa la somma di quello che ci portiamo dietro. Naif è stato un pezzo di vita di quindici anni che ha fatto da palestra a tutte quelle che ora sono le mie armonie preferite, la mia capacità di suonare qualunque strumento e di produrre un album, il mio sentirmi a casa su ogni palco enorme o piccolissimo in tutto il mondo. Le evoluzioni avvengono grazie al percorso che le ha permesse. Molte volte anche grazie agli ostacoli incontrati.

Criminal Love è il brano che hai dedicato a tua moglie Chiara, sposata nel 2017: cosa intendi per “amore criminale”?

Come dico nel testo, è un amore che rompe le ossa e ruba l’anima. Non parlo di un amore violento, io odio ogni forma di violenza. Ma di un sentimento poderoso, innegabile e ladro e privo di grazia nel prendere la mia vita e ribaltarla completamente. Questo continua ogni giorno, si rinnova come la lava.

Ti definisci cantautrice e attivista: quanto può oggi la musica spostare l’ago della bilancia verso una maggiore consapevolezza sociale dei diritti delle donne e della comunità LGBTQ+?

Spero molto, ma la strada è ancora lunga. Ricevo continuamente lettere e messaggi dai miei fan che mi raccontano le loro storie. Alcuni e alcune di loro mi confessano di parlarne per la prima volta con me. Sono ragazze di 12 anni picchiate dai padri in Turchia o donne nel pieno della carriera negli Stati Uniti alle quali viene strappato in tribunale il loro figlio da genitori che non accettano la loro omosessualità. Sono ragazzi omosessuali costretti a nascondersi in Russia o in India.


Tutti loro mi ringraziano di essermi aperta nella mia fragilità e di parlare così apertamente della mia omosessualità da far sentire loro che può essere normale e avere diritto di esistere. Spero presto di poter fare anche di più. L’elenco non finisce mai e l’Italia è ai primi posti. Non viviamo nel paese civile e aperto che crediamo di abitare. Le persone sono pronte e sempre piene di cuore, ma c’è un’incongruenza grossa con il sistema politico. Finché le leggi non saranno scritte nero su bianco le donne e gli omosessuali ma anche i disabili non saranno mai liberi di vivere in modo paritario le loro esistenze.

Secondo te in Italia a che punto siamo con il riconoscimento di questi diritti? Credi che l’ultima dichiarazione di Papa Francesco possa offrire un’apertura sufficiente per superare gli ostacoli ancora presenti?

No. L’apertura del Papa è stata eccezionale. Da tutte le parti del mondo ho ricevuto felicitazioni per la posizione rivoluzionaria che ha preso parlando del diritto a una famiglia per i gay. Ovunque i giornali hanno titolato con le sue parole. Ovunque tranne in Italia dove il Papa risiede e dove ha sede l’organo che più di tutti ostacola i riconoscimenti civili e legali dei nostri diritti.
Io sto per partorire il figlio mio e di Chiara. Voluto insieme, cercato insieme, concepito insieme mano nella mano, seguito nella pancia insieme ogni minuto. Ecco la nostra legge dice che Chiara non è un genitore. Se io morissi lei non sarebbe nessuno agli occhi della legge. Ma questo quasi nessuno lo sa.

Quando lo spieghiamo ai nostri amici, alla gente che incontriamo, tutti, dico davvero tutti, cascano dal pero e spalancano la bocca dicendo quanto sia assurdo e ingiusto. La Corte di Cassazione poi ha appena sancito con una sentenza incivile e profondamente cieca, che se vogliamo entrambe assumerci il dovere della genitorialità, non sta allo stato garantircelo ma dobbiamo intraprendere lunghe e costose cause legali dall’esito incerto.
E questo percorso è purtroppo possibile solo per gli omosessuali che hanno gli strumenti culturali ed economici per permetterselo. Questo gap, questa voragine che si apre tra persone nella stessa difficoltà è profondamente ingiusto.

Dolche – ph: Ikka Mirabelli
8. Il video del tuo singolo “Big Man” è stato girato con la tecnica del deepfake, in grado di mescolare i volti dei personaggi: qual è il messaggio che hai voluto lanciare con questo brano e con questo video?

Sì, e questa tecnica non era mai stata usata così nella storia del cinema. Di solito si passa da un viso all’altro. Noi abbiamo mischiato su uno stesso volto le facce di tante persone, sommandole fino all’inverosimile. Abbiamo voluto esasperare il concetto di diversità. Cosa succederebbe se un pezzo (un baffo, il colore nero della pelle, un occhio a mandorla) di chi passa per strada accanto a te ti restasse sul viso fondendosi ai tuoi tratti somatici? All’inizio le persone vanno nel panico. La diversità spaventa. Ma man mano che la narrazione procede le persone sono sempre più attratte e incuriosite da questa pluralità e alla fine anzi corrono come animali selvaggi per le strade di New York richiamati da un irresistibile impulso.

Gli esseri che ne vengono fuori sono più potenti, liberi, magici e nella scena finale tutti si riuniscono sollevandomi mentre sulla mia faccia i volti di tutti i protagonisti si fondono in uno solo. Ho scritto Big Man quando due anni fa si lasciavano le persone a morire in mare perché erano altro da noi. Erano invasori, nemici, inferiori, non umani. Erano temuti, ci venivano a rubare il lavoro e la casa in chissà quale apocalittico B-movie di fantascienza. Per me non è stato tollerabile. Se nella mia regione, la Valle d’Aosta, non fossero arrivati i Calabresi negli anni ’50 o i Sardi poi (gli immigrati di allora), saremmo ancora quell’orrendo e debole riciclo di geni e malattie che eravamo a inizio secolo in quanto comunità chiusa e isolata. La diversità, la mescolanza e lo scambio sono la miglior risorsa che abbiamo. Ma lo dimentichiamo ciclicamente.

Dolche, in dolce attesa: manca poco per l’arrivo del vostro primo figlio. Avete scelto con Chiara dove farlo nascere e dove crescerlo?

Sì. Una scelta obbligata. Nostro figlio sta per nascere a Torino perché la sindaca di questa città, Chiara Appendino, coraggiosamente persiste nel riconoscere i bambini nati all’interno di una coppia omosessuale come figli di entrambi i genitori. Altri comuni in Italia fanno la stessa cosa ma Torino ha una storia lunga di accettazione e di tutela dei diritti umani che noi ammiriamo profondamente. Quanto alla crescita noi siamo orgogliose di essere Italiane ma se il nostro paese continua a rifiutarci il diritto a un’infanzia serena cambieremo paese. New York è una città che ci ha sempre accolte a braccia aperte. La Spagna anche. Ma noi ci auguriamo di poter continuare a vivere qui.

Le notizie degli ultimi giorni in Italia, con un costante aumento dei contagi da Covid-19 e un’escalation di disordini nelle città, ci lasciano tutti un po’ attoniti e preoccupati. Hai voglia di lanciarci un messaggio rassicurante, regalandoci uno dei tuoi diorami in grado di ristabilire un po’ di fiducia nel futuro?

In questo diorama dobbiamo entrare senza fermarci alla prima cosa che si vede. Anche quando vado al Natural History Museum a New York, se osservo il diorama della giungla vedo subito solo i due gorilla al centro, immersi nelle foglie verdissime. Ma un diorama è tridimensionale e va esplorato in tutte le sue sfaccettature. Se guardiamo al nostro odierno, vediamo solo un uomo che lancia una bomba carta contro un poliziotto, una fila interminabile fuori da un ospedale già pieno, le strade vuote del coprifuoco.

Ma come nel diorama della giungla, se si fanno abituare gli occhi alla scarsa luce si vedono decine di specie di piante diverse e al loro interno uccelli dal piumaggio fluorescente e insetti a migliaia e altre scimmie più piccole e rettili e farfalle.

Allo stesso modo se abituiamo i nostri occhi e i nostri cuori a un ambiente più oscuro di quello che conosciamo, possiamo sicuramente vedere e riconoscere anche tutte le persone che incessantemente fanno tutto quello che possono per aiutare chi è in difficoltà, i carrelli pieni di spesa solidale ai supermercati, i lavoratori che cercano e trovano nuove risorse per le loro attività come il potenziamento della rete d’asporto per i ristoranti o il perfezionamento delle performance online per noi musicisti.

Si possono vedere le persone spaventate parlare tra loro e unirsi ancor di più nell’amicizia e nella famiglia perché accomunate da qualcosa di più grande. Questo non vuol dire non riconoscere l’immensa difficoltà di quello che ci sta capitando senza distinzione da molti mesi. Vuol dire avere occhi puntati a resistere e andare avanti nella consapevolezza che siamo vivi e siamo fortunati e soprattutto che non siamo soli.

Dolche – ph: Griffin Shapiro

Grazie Dolche per questa intervista! Auguri infiniti per la vostra nuova avventura!

A cura di
Emanuela Ranucci

Seguici anche su Instagram!
https://www.instagram.com/p/CHSWAd1DFCv/?utm_source=ig_web_copy_link
LEGGI ANCHE – Riapre il cinema Bersani, consigliamo a tutti la visione
LEGGI ANCHE – Gorillaz: cosa (non) è Song Machine?
Condividi su

Emanuela Ranucci

Nata a Torino, laureata in Comunicazione multimediale con una tesi specialistica in Letteratura italiana contemporanea, nel 2001 inizia a lavorare in RAI come redattrice e assistente di produzione per la realizzazione dei programmi televisivi educativi di Raitre (Melevisione, Screensaver). Nel dietro le quinte della tv si innamora della fotografia, realizzando le sue prime foto di scena. Da quel momento non abbandona più la macchina fotografica, dedicandosi a reportage, backstage, eventi, concerti e still life. Attualmente si divide tra i progetti da fotoreporter&videomaker e la sua agenzia di comunicazione (Loom Collective) che ha fondato a Torino.Nel tempo che rimane, ama: viaggiare, sorseggiare il barbera, nuotare al mare (anche d’inverno), cantare (stonando) in sala prove.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *