Niccolò Fabi: “Io sono l’altro” e come riscoprire la preziosa arte dell’empatia

Niccolò Fabi: “Io sono l’altro” e come riscoprire la preziosa arte dell’empatia
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“Io sono l’altro, sono quello che spaventa”

Ho sempre ritenuto che due fossero le sfide più complicate per un artista che vuole che il suo nuovo brano fin dal primo ascolto colpisca dritto al cuore (e al cervello) del suo pubblico: centrare alla perfezione il titolo e le prime parole del brano.

Il nuovo singolo di Niccolò Fabi, uscito il 13 settembre come primo anticipo dell’album “Tradizioni e Tradimento“, riesce perfettamente in questa impresa. Io sono l’altro affronta con semplicità e, permettetemi, anche un po’ di coraggio un tema che è di straordinaria attualità: il rapporto di ciascuno di noi con la società e, in particolare, con l’altro.

Non potevo che partire da questo brano per inaugurare questa nuova rubrica di The Soundcheck, dove proveremo, ben consci dell’estrema difficoltà e della scivolosità di certi temi, ad analizzare attraverso nuove uscite, o brani storici, argomenti di estrema attualità politica, economica e sociale. Politica nel senso più alto del termine, quella con la “p” maiuscola che analizza (e regola) il cambiamento di una società. La musica e l’attualità/politica in Italia si sono molto spesso sfiorati, talvolta anche toccati, ma il più delle volte respinti l’un l’altro. D’altronde ci vuole coraggio, lo dicevamo poco fa, per toccare certi argomenti senza paura di scottarsi.

Io sono l’altro si immerge, mani e piedi, in un tema di estrema attualità con grande delicatezza e attenzione. C’è da dire che non è la prima volta in cui Niccolò Fabi ci dimostra di saper trattare nel modo giusto argomenti delicati, perfino privati se pensiamo alla tanto emozionante quanto struggente Facciamo finta, dedicata nel 2016 dal cantautore romano alla figlia di 2 anni tragicamente scomparsa per una meningite fulminante.

Il tema del difficile rapporto fra l’individuo e la società che lo circonda, nel 2019 risulta davvero centrale. Basti pensare a quanto l’individualismo stia prendendo piede in ogni aspetto della nostra quotidianità.

Lo tocchiamo con mano in modo evidente, se ci pensate, con il tema dell’immigrazione che imperversa su radio, tv e giornali da alcuni anni. Il fenomeno dei flussi migratori è molto delicato e analizzarlo in poche righe sarebbe limitante, per non dire sbagliato. A prescindere da come la si pensi, è chiaro che alla base della paura degli immigrati vi sia una allarmante paura dell’altro. Di ciò che non si conosce a pieno.

Tralasciando questo aspetto per un attimo, ciò che risulta in un certo senso ancora più preoccupante è l’insofferenza verso l’altro che ritroviamo nei rapporti di tutti i giorni. Fabi nel suo brano racconta in modo molto efficace molti “vestiti” che facciamo fatica a indossare, finendo per giudicare l’altro. Per criticarlo. Per creare un muro.

Ed è proprio lì che si crea la frattura più grave nella società. Parliamo talvolta di “vestiti” indossati perfino da persone del nostro sesso, stato di nascita, con la nostra stessa istruzione, talvolta stessa religione e cultura. Nonostante ciò si finisce per non comprendersi né accettarsi. E alla base di tutto ritroviamo una perenne critica e giudizio di chi ci sta accanto.

Analisi sociologica e psicologica a parte, si riesce con chiarezza a notare come tutte le nuove “comunità” che si vanno creando in questo ultimo decennio, stiano sempre più indirizzandosi verso l’individualismo più sfrenato. Come fossimo una pallina lanciata su un piano inclinato, sul quale non riusciamo più a fermare la nostra corsa e a invertire la tendenza.

I social network e i nuovi modi di comunicare non sono altro che la palese dimostrazione di tutto ciò: nuove comunità (virtuali) nelle quali il rapporto con gli altri lascia sempre più spazio alla rappresentazione di sé stessi. Questo era quello che volevano i loro creatori?

Penso che mai Kevin Systrom prima, e Mark Zuckemberg poi, avrebbero potuto pensare nel 2010 che un giorno si sarebbero trovati costretti a nascondere uno degli aspetti centrale nella piattaforma Instagram, come il numero dei like, per arginare fenomeni di depressione (talvolta fino al suicidio) di molti loro utenti. Certo è che il successo delle piattaforme da loro create poggia saldamente le basi proprio sull’esaltazione del singolo e quindi che siano essi stessi primi responsabili di questo indebolimento del senso di comunità.

Siamo poveri nell’arte dell’empatia. Una parola bellissima che dobbiamo riscoprire e che ci lega nuovamente al mondo della cultura e della musica. Buffo vero? Sì, perché la parola empatia (dal greco antico “εμπαθεία“) era in origine utilizzata per definire il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore-cantore al suo pubblico.

L’empatia, il mettersi nei panni dell’altro, non dobbiamo temere finisca per annullarci, mitigando le nostre specificità. Anzi, l’empatia è un’arte preziosissima che ci può permettere di arricchire la nostra persona nutrendosi delle diversità che ritroviamo nell’individuo che ci sta accanto. E se faremo questo magicamente ci renderemo conto di riuscire ad accettare molto di più la vita di tutti i giorni, mettendo da parte l’odio e la voglia di criticare, tutto e tutti: due fra i mali più gravi di quest’epoca. E, badate bene, questo non è solo un problema di “buon vivere”, ma piuttosto un vero e proprio indebolimento della comunità, la polis, nella sua interezza. Perché il passaggio dal costruire muri fra le persone, talvolta persino molto più vicine e simili di quanto si pensi, al costruire dei muri fisici, è davvero brevissimo. E molto spesso ce ne si accorge troppo tardi.

D’altronde i muri, spacciati per strumenti di difesa dai “barbari” che stanno fuori, finiscono quasi sempre per ghettizzare, indebolire e mettere da parte chi si trova all’interno di quelle mura.

Provate quindi a mettervi sul divano, a chiudere gli occhi e a mettere in riproduzione “Io sono l’altro” di Niccolò Fabi. Sono certo finirete per ritrovarvi in quello che guarda con timore “quello che dorme sui cartoni alla stazione”, nell’inconscia distanza che si pone con “il figlio handicappato che sta in classe con tuo figlio” e nella sfrenata voglia di giudicare “il chirurgo che ti opera” o perfino “il presidente del Consiglio” di turno.

Beh, se saprete lasciare entrare questa canzone totalmente nel vostro cuore e nella vostra testa sono certo che vi fermerete per un attimo a pensare.

E magari proverete finalmente a farci un giro in quei vestiti.

…e poi mi dici!

a cura di
Francesco Malferrari

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