“Rossi fiori del Tibet”, l’unicità di una terra magica raccontata da A lai

“Rossi fiori del Tibet”, l’unicità di una terra magica raccontata da A lai
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Pubblicato dalle più rinomate case editrici cinesi nel 1998, Rossi fiori del Tibet (Red Poppies) è il libro più letto dello scrittore cinese di origini tibetane A lai. Vincitore del prestigioso premio letterario cinese Mao Dun nel 2000, il racconto dovrebbe essere, nelle intenzioni dell’autore, la prima parte di una trilogia interamente incentrata sulla rappresentazione del Tibet

Collocato nel Tibet del XIX secolo, Rossi fiori del Tibet è un romanzo storico appassionante e creativo. Almeno una volta nella loro carriera, gli scrittori cinesi contemporanei si sono cimentati in questo genere di narrativa, cercando di dare un senso alla storia del presente prendendo spunto dal passato.

Molte di queste opere si focalizzano sulla maggioranza etnica Han, ma di particolare interesse sono anche una serie di racconti di identità alternative come quella tibetana. Lo scrittore A lai, in particolare, è riuscito a catturare l’attenzione della critica per essere stato il primo autore a voler rappresentare il corridoio etnico sino-tibetano come una realtà piena di amore ed umanità.

L’autore decide di scontrarsi direttamente contro i classici stereotipi della prevalente narrativa Han, che giustifica da sempre la conquista del Tibet come necessaria per la civilizzazione e l’emancipazione di un popolo crudele e bellicoso. Per arrivare al cuore del popolo cinese, A lai sceglie di parlare del suo paese d’origine in lingua cinese attirando a sé grande attenzione non solo in patria ma anche negli Stati Uniti, dove Rossi fiori del Tibet è stato tradotto subito dopo la sua uscita.

La rappresentazione di un luogo fiabesco lontano dalla modernità

Ambientato nella prefettura autonoma tibetana di Aba e Qiang, il romanzo descrive l’intrigante storia famigliare della tribù dei Maichi. Potenti signori feudali, i membri del clan si contraddistinguono per il carattere autoritario, a tratti primitivo, ma essenziale per riuscire a dimenarsi tra lotte di potere e scontri tra famiglie rivali. La voce narrante dell’opera è il membro più giovane del clan definito “idiota” per via della malattia mentale di cui è gravemente affetto.

Nonostante la propria limitatezza, il giovane riesce a vivere la propria vita in libertà osservando cose e persone con uno sguardo ingenuo ma straordinariamente acuto. La sua forma di demenza cela in realtà una mente geniale, che è riuscita a salvare il clan da povertà e da eventi nocivi causati dalla rapida diffusione dell’oppio.

All’inizio del racconto, nessuno fa uso della sostanza stupefacente tranne la madre dell’“idiota”, la moglie cinese del capo clan Maichi. Ben presto, tuttavia, l’oppio si diffonde a macchia d’olio in tutta la prefettura, trasformando i campi dediti unicamente all’agricoltura di sussistenza in terreni ricolmi di papaveri rossi.

Lo straordinario raccolto di oppio riempie le casse del clan, che aumenta la sua influenza militare grazie anche all’aiuto di un ufficiale del Guomindang. Temendo una possibile concorrenza violenta con le altre tribù, il capo clan chiede consiglio ai suoi figli sulla prossima coltura da piantare nella stagione successiva.

Seppur il figlio maggiore non riesce a dargli una risposta, essendo coinvolto solo negli affari militari, il figlio “idiota” grazie alla sua astuzia, convince il padre a piantare unicamente grano. A seguito di una grave carestia, molti moriranno di fame avendo piantato esclusivamente oppio nel proprio appezzamento di terra. Soltanto il clan Maichi si salva, nutrendosi del grano seminato l’anno precedente sotto consiglio dell’”idiota”.

Red Oriental Poppy fonte: americangardener.com
La fragile identità del Tibet

La scelta dell’autore di raccontare il romanzo attraverso gli occhi di un “idiota” capace di portare il suo clan alla salvezza, altro non è che un espediente narrativo per affrontare la questione identitaria del Tibet. La presenza dell’aspetto più mistico ed esotico del Tibet viene posto in secondo piano per accentuare l’attenzione del lettore su tematiche geopolitiche ed economiche.

I papaveri, infatti, diventano mezzo importante per l’emancipazione economica dei tibetani, ma causano anche scontri e lotte sanguinose sia all’esterno che all’interno delle tribù locali. Il Tibet, da sempre terra spirituale grazie agli scambi culturali con il Dalai Lama, diventa terreno di guerre causate da eventi storici che lo condannano ad uno stato satellite della Cina della dinastia Han.

In tutta l’opera, sono solo due le domande poste con più insistenza dall’ “idiota” al lettore: “Chi sono io?” e “Dove sono io?”. Del resto, l’identità del clan regnante è ibrida, siccome lo stesso narratore e protagonista proviene da due culture diverse. Figlio del capo clan tibetano e della sua seconda moglie di etnia Han, il figlio “idiota” non mostra alcun interesse nel voler apprendere i caratteri cinesi e conoscere nel dettaglio la cultura Han.

Nonostante i tentativi fallimentari della madre che vede nel figlio un significativo intermediario tra la cultura tibetana e quella Han, il giovane si rifiuta di appartenere ad una cultura specifica. Senza la difficoltà di scelta tra quale delle due etnie sia la più prestigiosa, lo scrittore riesce ad elogiarle entrambe promuovendo ideali quali tolleranza e totale ripudio all’estremizzazione del concetto di nazionalità.

“Quell’idiota ero io. A parte mia madre, quasi tutti mi volevano bene per ciò che ero. Se fossi nato intelligente, avrei forse da tempo lasciato questo mondo per le Gialle Sorgenti, invece di starmene a sedere davanti ad una tazza di tè, con strambi pensieri per la testa.”

L’unicità di una regione a cavallo tra sogno e dura realtà

Rossi fiori del Tibet è un’opera piuttosto semplice dal punto di vista stilistico, ma complessa se si prende in considerazione il contenuto. Attraverso le lunghe e dettagliate descrizioni del paesaggio tibetano e dei suoi usi e costumi, l’autore desidera raccontare al lettore estrapolati della cultura del suo popolo. Umanizzare e rivitalizzare la storia del Tibet, dopo essere stata annientata dalla storiografia ufficiale del Partito Comunista Cinese, è lo scopo finale del romanzo.

Non esiste soltanto il Tibet dilaniato da scenari violenti, è presente anche una forte componente affettiva che rappresenta l’esclusività della regione. Il legame che il popolo tibetano ha con la propria terra e le proprie tradizioni è inscindibile. La popolazione è orgogliosa della propria soggettività e identità, essendo dotata di principi morali e sociali eccezionali del sapere tibetano. L’amore che i tibetani nutrono per il loro patrimonio culturale sprona il lettore a riscoprire le proprie radici e a valorizzarle in quanto uniche al mondo.

a cura di
Elisa Manzini

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