“Il tarlo”, Layla Martinez e la famiglia da destrutturare

“Il tarlo”, Layla Martinez e la famiglia da destrutturare
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In un paio di settimane non sono riuscita a fare altro che pensare. Ho pensato, preso appunti e compreso che scrivere del romanzo di Layla Martínez, Il tarlo, pubblicato da La Nuova Frontiera, si sarebbe tramutato in uno scrivere per me, una scrittura fintamente curativa perché dalla famiglia non ci si cura con una recensione.

Ma prima di pensare che stia parlando di un agglomerato di contadini del Missouri o qualsiasi altro posto con salopette e spighe di grano, partiamo dal libro. Lo vedo, lo sento (li chiamano poteri magici) e lo ordino. Ma siccome sono una libraia un po’ vecchia scuola, voglio sapere cosa c’è nel libro e ne ordino solo due copie.

Il risultato? Stanno arrivando tutte le altre perché dall’inizio dell’anno in corso, è fra i più bei libri che abbia letto.

Jacquard per trama

La quarta di copertina recita quanto segue:

Le case racchiudono le storie di chi le ha abitate, e quella di questo romanzo non fa eccezione. Le sue pareti, che si restringono e si dilatano come i polmoni di un grande animale, custodiscono angeli in cucina, sparizioni mai risolte, ombre e voci che affiorano dai letti. Ed è lì che vive una giovane donna, insieme alla nonna persa in un passato che non se ne vuole andare, un tempo di guerra e povertà che si è lasciato dietro un imprecisato numero di vittime.
A sconvolgere le cose è un tremendo delitto, l’ultimo di una lunga catena di vendette e di ingiustizie che affondano le loro radici in quel passato lontano.
Con una tensione crescente Il tarlo ci fa immergere in una realtà oscura, a volte spaventosa, utilizzando tutti i meccanismi del romanzo gotico per raccontarci una storia di rancore sedimentato e di rabbia scatenata dalla violenza di genere e di classe.

Tecnicamente è tutto vero. Una sintesi impeccabile se non fosse che l’occhio della libraia che propone la libroterapia cade inesorabilmente su un dettaglio: a sconvolgere le cose è un tremendo delitto. No, le cose si sono sconvolte agli inizi, quando quei rami della famiglia hanno iniziato ad avvinghiare la pelle, i muscoli e le ossa di chi cercava di prendere un po’ d’aria. Poi lo sguardo scivola sullo specchio e arriva la domanda fatidica.

Martinez di chi racconta, di lei, di me? Il tarlo chi lo ha portato? Sarà mica che ho bisogno di questa storia per sentirmi compresa? A Roma si dice pò esse, è un aspetto da non sottovalutare.

La famiglia è questo, un posto dove in cambio di un tetto e un piatto caldo resti intrappolata con un pugno di vivi e un altro di morti. Tutte le famiglie hanno i loro morti sotto il letto, solo che noi i nostri li vediamo.

Abbiamo una nonna, una nipote, anime che vagano, santi che rapiscono la nonna, bambini scomparsi e una casa che risponde alle emozioni, che chiude le sue porte se serve una trincea, che ha bisogno di essere nutrita. C’è il gotico, senza dubbio. C’è il ritmo della traduzione che non ti molla, 140 pagine che vedi scorrerti via fra le dita e non vorresti finisse mai perché raramente trovi il male così poco affascinante ma anche così lussurioso.

Lussurioso si, perché dentro ci buttiamo tutto il nostro rancore, la nostra rabbia. Ci buttiamo dentro anche quello che non abbiamo, che creiamo ad hoc perché sentiamo di essere compresi in certi punti.

Un tessuto ricamato a regola d’arte, tanti fili sottili intrecciati a creare un motivo complesso, quasi a ricordare Midsommar, del regista Ari Aster: cunicoli che i tarli lavorano minuziosamente per deporre le uova e per nutrirsi e poi ricominciare. Un tessuto che però si sfalda tirando un solo filo.

Quel filo si chiama bambino scomparso, nipote additata come colpevole. Ma perché, se lei non ha colpa?

Estratto di Il tarlo, Layla Martínez, La Nuova Frontiera
Tutto sbagliato

L’impressione è che ci si senta legati da qualcosa che non ci appartiene. Scegliamo di realizzare azioni perché sappiamo che è così che deve essere, e da una parte ci chiediamo perché non può andare diversamente, dall’altra agiamo, come un complesso e flaccido tripudio di connessioni neuronali che non funzionano. Non ci chiediamo se possiamo fare altro, ma solo perché non possiamo.

Un po’ di rancore lo provo, sì, ma perché me l’ha attaccato mia nonna e perché mi fa rabbia che una ragazzina se la portino via così senza vestiti senza soldi senza che se ne voglia andare e si sappia solo che è salita su una macchina e nessuno l’ha più rivista.

Questo crea un blocco, una catena invisibile che non siamo in grado di decifrare. Si chiama costellazione familiare, si chiamano comportamenti reiterati trasmessi come gocce di DNA da una generazione all’altra. Come l’odio, la rabbia, il rancore. Stessa storia che si ripete.

In questa casa non si ereditano soldi o anelli d’oro o lenzuola ricamate con le iniziali, qui i morti ci lasciano solo i letti e il risentimento. Il cattivo sangue e un posto dove stenderti la notte, solo quello puoi ereditare in questa casa.

E la nipote, questa giovane donna che ha provato a sciogliere le catene ma che è stata inevitabilmente risucchiata dentro la casa, è solo l’ultima, forse. Prima ancora sua madre, andata via e mai più tornata, una presenza che si sente in casa. Una mancanza, un confronto, un posto vuoto occupato da nessuno. Sua madre, prima ancora di lei, aveva sentito il peso di ciò che la sua famiglia era stata. Quel si è sempre fatto così come moto perpetuo. Quel grat grat nella testa, il tarlo, proprio come lo chiamano loro.

Il Tarlo, che cos’è?

Bella domanda. Un romanzo gotico, una storia di soprusi di genere e sociali, una storia di case che divorano, di famiglie rotte e di prigioni. Di un patriarcato che sembra sconfitto ma tanto è radicato che non se ne accorge nessuno. Una storia che, come il suo titolo, ti gratta sotto la pelle, tira fuori il peggio di te e poi se ne va, lasciando un vuoto. Come il tarlo.

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a cura di
Ylenia Del Giudice

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