Piero Sidoti: Amore per l’imperfezione

Piero Sidoti: Amore per l’imperfezione
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Piero Sidoti, cantautore italiano della provincia di Udine, ha pubblicato il 13 maggio il suo terzo album “Amore [Fino a prova contraria]”. 

Dopo essersi laureato in Scienze Biologiche, Piero Sidoti si è avvicinato alla musica negli anni ‘90, per poi pubblicare nel 2010 il suo primo album, Genteinattesa, con la collaborazione e la prefazione di Lucio Dalla. Con questo disco si è aggiudicato la Targa Tenco come migliore opera prima. Nel 2015 pubblica Lalala, il suo secondo album, mentre nel 2020 partecipa al film Il grande passo di Antonio Padovan con Giuseppe Battiston, Stefano Fresi e Vitaliano Trevisan. Il suo ultimo album, Amore [fino a prova contraria], è uscito il 13 maggio scorso.

Amore [fino a prova contraria] 

Amore [fino a prova contraria] è un album che di brano in brano, di testo in testo, salta tra le varie sfaccettature che l’imperfezione può raggiungere, fino a farcele amare e apprezzare per quello che sono: umane. 

Salta anche bene tra i generi, dalla bossa nova al valzer, dalle ballate a ritmi più latini come quello del tango, senza farsi mancare il reagge. La costante tra tutti questi stili è la tecnica del parlato, nella quale risalta la sua voce, il suo timbro profondo e ruvido. Timbro che rende particolarmente il suo effetto nel brano Mi devi voler bene: un tango che trasuda sofferenza e che graffia, come graffia la voce che ci accompagna. 

È un album che racchiude musica, poesia ma anche fiaba e spettacolo, conciliando la profondità dei sentimenti – che sono in grado di attraversare le epoche storiche rimanendo forti e invariati, come narra in Cosmico, settimo brano – con la bellezza che l’imperfezione si porta appresso, lasciando sempre spazio alla leggerezza che può raggiungere chi si libera dalla paura. 

Con un album così ricco e interessante, abbiamo deciso di intervistare Piero per voi! 

Ciao Piero! Benvenuto su The Soundcheck! Parliamo del tuo ultimo album: “Amore [fino a prova contraria]”. Qui parli di amore sotto svariati punti di vista e con diversi approcci, sottolineando il fatto che non esiste l’amore perfetto e che, anzi, l’imperfezione è proprio ciò che ci rende umani e amabili. Come sei giunto a questa consapevolezza e come mai hai deciso di parlarne nel tuo album? 

Penso che la vita sia il frutto dell’imperfezione. Tutto il disco è un inno a vivere la propria umanità, la propria imperfezione, perché l’umanità è imperfezione come tutto ciò che è vita. Se non ci fosse stata l’imperfezione non ci sarebbe stata nemmeno la vita. Questa si genera dalle particelle distribuite in maniera disomogenea nello spazio, altrimenti saremmo avvolti in un brodo primordiale; diciamo che la vita è qualcosa di splendidamente imperfetto. Tutto il disco parla di amori e sentimenti imperfetti ma umani. Questo è anche sintetizzato nella copertina di Amore [fino a prova contraria], dove c’è per metà il David di Donatello – che rappresenta la perfezione, l’amore ideale, ciò a cui tutti vorremmo tendere – e poi l’aspetto più umano e decadente, in carne e ossa, rappresentato dal mio volto, ma potrebbe essere il volto di chiunque. L’ideale e il reale. 

A proposito, ho notato che l’intero album racchiude una profondità e una dolcezza poetica oltre che musicale. I testi nascono sempre dalle tue ispirazioni? Come funziona il tuo processo creativo? 

Come prima cosa ti ringrazio (ride, ndr). Nascono da cose che mi hanno emozionato e che intendo tramandare per tentare di emozionare qualcun’altro. Possono nascere sia da storie di vita reale sia da suggestioni, da momenti e luoghi dell’animo. Qualcosa di provato, sognato o sentito a livello emotivo. Dopodiché il processo creativo può nascere dal testo o dalla musica indifferentemente; meglio ancora se si sposano, e quindi se una frase che racchiude una sensazione ha già dentro una musicalità o se una musica spinge a una determinata suggestione o testo. Ci può essere anche un gioco linguistico, ma se le emozioni non sono davanti il gioco è fine a sé stesso. La speranza è sempre e soprattutto quella di emozionare.

Essendo i tuoi brani molto profondi, ho immaginato che tu ci abbia inserito molte delle tue riflessioni e del tuo vissuto più intimi, come mi hai appena confermato. Come artista, hai mai paura delle conseguenze che potrebbe avere ciò che dici, e del giudizio delle persone? Hai mai dovuto affrontare la paura di mostrarti così metaforicamente nudo di fronte a un pubblico in ascolto?  

Sì, ma man mano che l’età aumenta c’è sempre meno. Ovviamente, come tutti, ho un po’ di timore; nel momento in cui uno si espone è inevitabilmente soggetto a critiche. Maggiore è il pubblico che lo segue, più critiche ci sono. Sono molto belle quando sono dei consigli registici che ti direzionano verso un maggiore ascolto di te stesso e una maggiore verità. Quando le critiche sono fini a sé stesse, o volte a distruggere, bisogna imparare a recepirle e ignorarle perché non servono a nulla. Io sicuramente facendo questo disco ho pensato di togliere molta dell’ironia che mi caratterizza per mettermi più a nudo. Con una canzone d’amore è rischioso, sei sempre in bilico tra scrivere una bella cosa e scrivere una cosa ridicola. Con un testo ironico politico-sociale si rischia molto meno. Io mi sono spostato più sui sentimenti. Alla fine, però, io presento il disco insieme a uno spettacolo che fa da cuna e tiene insieme tutte le canzoni; è una fiaba, un viaggio di due bambini che partono a bordo di una panchina e vanno verso la luna, dove le cose che appesantiscono la vita sulla terra non esistono. Lì non c’è paura né gravità, il tempo trascorre indifferentemente da una parte o dall’altra. Volevo fosse un racconto non politico e non sociale. Mi sono accorto che, involontariamente, è forse la fiaba più sociale e politica che io abbia mai scritto: un inno a vivere senza paura. Al momento è la cosa più rivoluzionaria che si possa fare, visto che sulla paura si calca molto. 

Mi collego alla seconda canzone dell’album, che era già uscita come singolo, in cui dici queste parole: “perché io lo so che c’è un posto sulla luna dove tutta la paura perde consistenza e vola e vola e se ne va”. Ti riferisci a un posto o momento preciso che associ al contesto di casa, oppure proprio alla possibilità di vivere liberandosi dalla paura?  

Come nella storia, anche lì si ipotizza che la paura generi la forza di gravità, e quest’ultima genera l’inevitabile trascorrere del tempo in una sola direzione, e via via genera anche mostri. Si ipotizza che sulla luna c’è meno gravità proprio perché vi arriva solo l’eco della paura terrestre; ma nel posto magico dietro la luna non arriva nemmeno questo eco, per cui possono succedere cose magiche, si può volare e giocare con il tempo. Lì si prende metaforicamente contatto con le proprie parti più inconsce, grigie e scure, accettandole e abbracciandole. Questo ci consente di portarle alla luce e farle brillare: la soluzione è l’accettazione e l’accoglienza. 

Quindi, hai detto che presenti questo disco con uno spettacolo. Infatti, ho visto che sei anche attore di cinema e teatro. Tu, personalmente, hai trovato un modo per conciliare questi due tipi di arte e farli interagire tra loro? Se sì, come?  

Il punto che metti in luce è abbastanza nevralgico. Teatro e canzone possono convivere bene e quando accade c’è una sinergia molto bella, l’uno esalta l’altro. Trovare l’alchimia, però, è frutto di un lavoro molto lungo e a volte può non riuscire. Ovviamente spero che la fiaba con cui presento il disco abbia queste caratteristiche e sappia far convivere le due cose, in modo che l’uno riecheggi sull’altro. Ma ci vuole un lungo lavoro affinché la cosa rotoli bene. Ho sempre presentato le canzoni in maniera teatrale perché è come se i personaggi e, in questo caso, le emozioni dei brani, mi chiedessero di essere sviluppate anche al di fuori dei canonici tre minuti e trenta della canzone. 

Percepisci quindi come un limite questa regola dello standard di lunghezza del brano? 

Più che un limite è un desiderio interiore di far vivere ulteriormente la cosa. Mi piace molto che la canzone sia sintetica, amo la sintesi. La poesia è sintesi, così come la matematica, che ha un che di preciso come linguaggio. In questo caso è più un entusiasmo interiore di far proseguire questa cosa contaminandola con altre forme artistiche come il teatro. 

Quanto tempo ci hai messo a costruire questo discorso musicale e poetico?  

Per il discorso musicale ci ho messo parecchio tempo. Scrivo molto e butto via molto, sintetizzo. La creazione della canzone è rapida all’inizio, ma poi il lavoro di cesellamento è un lungo artigianale. Ci ho messo molto anche per registrare. Una volta pronto il disco ho iniziato il discorso sullo spettacolo teatrale; è circa un anno che ci sto lavorando. Ci ho messo molto tempo ma ne ho anche avuto molto a disposizione, su questo sono stato molto fortunato (ride, ndr): il covid ha dato molto tempo libero, che ho deciso di utilizzare così. 

Una curiosità per quanto riguarda i brani: ce ne sono due che sono curiosamente intrecciati tra loro: Mi devi voler bene e È soltanto la fine del mondo. Il titolo del primo si ritrova nel testo del secondo e viceversa, ma non nel testo della canzone stessa. C’è un motivo per cui hai pensato di creare questo intreccio, e come mai proprio tra questi due brani? 

A questo punto non c’è dubbio che tu abbia ascoltato il disco (ride, ndr). È un errore che stiamo tentando di correggere, almeno sulle piattaforme, ma volendo possiamo interpretarlo come la volontà di inserire all’interno di Amore [fino a prova contraria] un tocco di umanità ulteriore (ride, ndr). 

Per quanto riguarda i brani vorrei farti un’ultima domanda: in Triste canti queste parole: “triste, troppo triste, da dover correre ogni volta più veloce perché non voglio più portare questa croce facendo sempre finta di essere felice”. Queste parole nascono dal fatto che anche tu, come molti altri, senti la pressione di questa società odierna che vuole imporci di essere costantemente produttivi e di non mostrarci mai fallibili oppure ha un altro significato?  

Una cosa scritta può essere riempita di tantissimi significati e ringrazio sempre quando qualcuno ne aggiunge uno; quello che hai appena individuato tu va benissimo, ma quello che ho pensato io è quello di accettarsi e accettare la propria tristezza. Si può uscire da una tristezza solo accettandola, facendola vivere e ballandoci assieme, senza identificarsi e crogiolarsi in essa. Non la si evita combattendola o riempiendo la vita di tante stupidaggini. Ma anche quello che dici tu è sicuramente vero; anche l’inefficienza, l’inefficacia, la tristezza fanno parte dell’essere umano, e siamo meravigliosi proprio per questo anche. 

Il tuo stile mi ricorda molto anche quello del vecchio cantautorato italiano. È da lì che prendi ispirazione? Qual è l’artista che più influenza il tuo stile? 

Beh oddio sono tantissimi, tutto il cantautorato storico. È inutile menzionarli tutti; sicuramente ero molto amico di Lucio Dalla, che è stato anche mio editore, quindi sicuramente mi ha influenzato molto, ma così come tutti i padri del cantautorato: Fossati, De Gregori, Conte, e tutti gli altri. Sono cresciuto con il cantautorato italiano ma ascoltando anche tanta altra musica; sono un onnivoro di musica. Anche cantautorato sudamericano, americano e inglese. 

Infatti ho notato molte influenze latine e sudamericane nelle canzoni! Come il tango, ad esempio.  

Sì esatto, anche bossa nova, che suscita sempre un grande fascino. Mi piace anche il sentimento del saudade, questa tristezza dolce che ti culla, di quando sei contento di essere triste, di vivere questa nostalgia. 

Ci sono novità per delle date di un tour estivo? 

Sì, ci sono svariati luoghi in cui suonerò, adesso ho una decina di date in regione, vari festival estivi. Tra le confermate sarò a Riflessi festival il 18 giugno, al festival Estensioni il 25 giugno, all’apertura della stagione estiva del cinema Visionario di Udine il 2 luglio, al festival Če povem in Slovenia il 20 agosto. Poi sto cercando di portare lo spettacolo nella stagione teatrale anche in città come Torino, Milano, Roma; insomma, ci sono altre novità in aggiornamento.

Ultima domanda: alla luce delle consapevolezze cui sei giunto e che hai deciso di inserire e raccontare nell’album, cosa diresti al te di un tempo?  

Mi direi sempre di stare più tranquillo, mi direi: “vedi che alla fine non occorreva agitarsi” (ride, ndr). Ma anche: “sta’ quieto, togliti la paura e goditi il momento. Non arrabbiarti.” 

Ti ringrazio per il tempo dedicato e per le tue risposte molto belle! A presto!

a cura di
Gaia Barbiero

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