C’mon Tigre, “Habitat” è un luogo dove ci sentiamo meglio

C’mon Tigre, “Habitat” è un luogo dove ci sentiamo meglio
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Abbiamo ascoltato il nuovo disco dei C’mon Tigre, “Habitat” uscito lo scorso 24 novembre.

È molto interessante come ci sia un piacevole contrasto tra questa sotterranea volontà di connettersi con la natura (il che esclude molto spesso tutto ciò che è tecnologico) e la tecnologia appunto che è il mezzo necessario per connettersi. Pensiamo anche soltanto ad esempio alla collaborazione della band con artisti internazionali come Xenia Franca, Arto Lindsay o anche italiani come Giovanni Truppi.

Insomma, “Habitat” è una commistione di natura a 360 gradi, di rapporto con l’altro e con la vita. “Habitat” è il luogo in cui tutti vorremmo stare e in cui possiamo sentirci meglio.

Noi ce lo siamo fatti raccontare.

Ascoltando “Habitat” (come poi evoca il titolo stesso) mi è sembrato di entrare in un altro mondo, di salutare la realtà per l’appunto, come dice il titolo del singolo “Goodbye Reality” che fa da apripista al disco: qual è stata la vostra esigenza che vi ha spinto a produrre questo disco?

Assolutamente sì, è piuttosto ampio l’argomento. Dopo un periodo così complicato e difficile che abbiamo vissuto tutti su scala globale, noi avevamo bisogno di lavorare su qualcosa che durante e dopo ci facesse sentire più leggeri, e questo ha determinato un sacco di scelte che abbiamo fatto, compresa quella del linguaggio musicale che abbiamo adottato.

Quindi il fatto di avere abbracciato la musica brasiliana come canovaccio è perché ci serviva qualcosa di vitale e di leggero e allo stesso tempo che conservasse una malinconia di fondo che è un sentimento che ci appartiene. L’apertura di questo disco è essenzialmente un entrare in punta di piedi in un percorso nuovo: c’è quindi un invito ad entrare, a sedersi e piano piano capire di cosa si parlerà all’interno del disco e qual è la tavolozza di colori che abbiamo usato, qual è la musica che abbiamo scelto come ispirazione principale, allontanandosi dalla realtà.

Questo è “Habitat”: un luogo dove ci sentiamo meglio, un qualcosa dove la vita è più facile, dove c’è rigogliosità, dove la vita prospera.

Alla presentazione del disco avete affermato che “Habitat” a differenza degli altri è un disco “senza rabbia”, che cosa è cambiato?

Quando sei tanto immerso nei pensieri depressi, dovuti all’epoca in cui viviamo, questo fa sì che sentiamo l’esigenza di fare qualcosa che ci faccia sentire meglio, nella speranza poi che tutto questo possa servire anche ad altre persone.

Nel vostro “Habitat” si percepisce la volontà di coesistenza tra l’uomo e la natura in maniera il più armoniosa possibile, un discorso “ecologico” che non può che essere estremamente attuale. Quanto vi sentite vicini a questo argomento in quello che fate?

Chiaramente c’è anche quello. Di solito succede così che quando lavori a qualcosa, che non te ne rendi conto mentre lo stai facendo, e poi impari a capire e conoscerlo meglio proprio quando ti confronti con altre persone solo dopo che l’hai fatto. Anche le interviste ci aiutano a capire quello che abbiamo creato, di certo non siamo quegli artisti che si siedono e pianificano quello che bisogna fare.

Il discorso ecologico c’è, essendo parte tutti dello stesso mondo. Lo abbiamo trattato già nel disco scorso, quindi ci siamo confrontati già con l’idea di un problema e di come si può risolverlo. Questa volta però è più una questione vitale, che va a toccare il problema dell’ecologia ma in senso lato.

Noi volevamo semplificare il tutto e ricondurlo ad una cosa più umana e meno come ad un confronto sociale.  

Stavolta abbiamo cercato di guardarci un po’ dentro.

È molto interessante anche tutto il lavoro non solo sull’immaginario che riuscite ad evocare attraverso la vostra musica, ma anche quello che avete mostrato poi letteralmente durante la sua presentazione in una galleria d’arte. Pensavo anche ai video visual che accompagnavano l’ascolto di “Habitat”. Che connessione c’è, per voi, tra l’arte visiva e quella musicale? Quali sono le vostre ispirazioni anche da un punto di vista delle grafiche, dei disegni dei colori…

C’è la nostra storia che è molto legata all’arte visiva. Prima di mettere le mani sui C’mon Tigre, prima di imbarcarci in questa avventura, si lavorava sull’arte visiva, per cui abbiamo maturato tutta una rete di contatti. E di solito quando ti metti a fare qualcosa e peschi dal tuo profondo, non puoi non parlare del tuo vissuto, per cui è una predisposizione la nostra, questa del legare il nostro lavoro musicale all’arte e alle immagini.

Poi è anche molto facilitata dal fatto che siamo amici di molti artisti che hanno a che fare con l’aspetto visivo. Quindi questa cosa abbiamo cercato di amplificarla il più possibile, perché crediamo che tutto quello che vorremmo produrre con C’mon Tigre deve avere una sua ragione d’essere a prescindere dal lato musicale, in cui si cerca di vendere la musica come se fosse un prodotto, e lo stesso per le foto. I Cmon Tigre vuole che tutto quello che viene prodotto non abbia un fine promozionale, ma che sia qualcosa che possa esistere al di là di C’mon Tigre, al di là dei dischi da vendere e delle date da promuovere.

Quello che facciamo dal punto di vista dei video ha poi la loro vita in festival del cinema d’autore. In un mondo di sovrapproduzione, noi vorremmo tenerci fuori da questa logica. Tant’è che non vogliamo che si associ il progetto a un nome e cognome o alla nostra immagine.

“Nomad at home” è stato il brano che forse mi ha colpito di più da un punto di vista del significato, questo costante non sentirsi mai a casa, a cosa è dovuto secondo voi questo non sentirsi mai del tutto legati al proprio luogo di appartenenza?

Non ci si riconosce a casa, non in senso geografico ovviamente, perché non ci sentiamo rappresentati. Abbiamo la sensazione di vivere in una piccola bolla, in una nicchia, che poi al di fuori ci si sente un po’ persi; a livello politico è un disastro. Sentiamo tutto un po’ distante da noi (senza per forza demonizzare questo concetto) ma lo percepiamo indubbiamente come un rumore di fondo.

a cura di
Ilaria Rapa

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