Asteroid City – la recensione dell’ultimo (splendido) film di Wes Anderson

Asteroid City – la recensione dell’ultimo (splendido) film di Wes Anderson
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Il 28 settembre è uscito in sala “Asteroid City”, l’ultimo film di Wes Anderson presentato in anteprima mondiale alla 76ª edizione del Festival di Cannes. Il film ha diviso drasticamente pubblico e critica, conquistando il cuore di molti ma ricevendo, al contempo, altrettante pesanti stroncature. 
In questo articolo trovate tutti i motivi che rendono – a mio avviso – “Asteroid City” una delle pellicole più riuscite di Anderson.
Un film che merita di essere visto almeno una volta al cinema.

P.P.I (Piccola Premessa Iniziale)

Asteroid City non è un film per tutti, e, quindi, per logica estensione, nemmeno questa recensione lo è.
I numerosi detrattori della pellicola (vantanti sicuramente le più ragionevoli motivazioni) non potranno, infatti, che trovarsi totalmente in disaccordo con l’opinione di una persona che, in realtà, non ha mai avuto particolare affinità con il cinema di Wes Anderson. 

Ma che è rimasta totalmente innamorata
ammaliata; 
conquistata; 
sedotta; 
stregata; 

rapita
dalla sua ultima pellicola: Asteroid City

Il metacinema andersoniano: il Cinema che svela se stesso 

“Il programma di questa sera ci porta dietro le quinte per assistere alla creazione di una nuova commedia allestita su un palcoscenico americano.
“Asteroid City” in realtà non esiste. È un dramma immaginario creato espressamente per questa trasmissione. I personaggi sono di fantasia, il testo ipotetico, gli eventi una falsificazione apocrifa, ma insieme ci forniscono un resoconto autentico dei meccanismi di una moderna produzione teatrale.”

Presentatore, Asteroid City, Wes Anderson, 2023

Così inizia Asteroid City, catapultandoci fin da subito in quella dimensione immaginaria in cui lo spettatore si cala volontariamente, nella sala buia del cinema.
Rivelandosi, definendo se stesso. Mettendosi a nudo senza mezzi termini, davanti al suo pubblico, e presentandosi per quello che è: una commedia fittizia basata su fatti strani e fantasiosi, totalmente irreale. 

Il presentatore e lo sceneggiatore si rivolgono direttamente al pubblico – a noi presenti-, con una rottura della quarta parete che permette, sì, di presentarci nel dettaglio l’ambientazione e i personaggi, quasi come se stessimo leggendo in prima persona il copione dello spettacolo. Ma che consente anche un’analisi ulteriore e più approfondita sui sentimenti e sulle emozioni provate dai protagonisti e dai loro interpreti, che fanno domande, dubitano, cercano continuamente risposte. 

È il metacinema. Il Cinema che racconta se stesso.
Che ci mostra qualcosa del mondo, ma dall’alto di un palcoscenico. 

Alziamo il sipario. 

Ancora non capisco la commedia

“Non è il miglior Anderson. Lo definirei piuttosto un mero esercizio di stile.”

Signora sulla sessantina, seduta di fianco a me durante la prima proiezione 

Ho visto Asteroid City per ben quattro volte (maturando la ferrea convinzione di essere probabilmente affetta da una particolare forma di disturbo ossessivo-compulsivo), ma è stato questo commento più di ogni altro a farmi riflettere su quanto la nuova pellicola di Wes Anderson non sia probabilmente rivolta a tutti e, nello specifico, a chi – vuoi per scarso interesse o per noia – si limiti semplicemente a guardare il film, senza in realtà capirlo veramente. 

Perché Asteroid City è un film che va prima di tutto assorbito e, solo più tardi, assimilato. 
Un film fatto di volti imperscrutabili e lunghi silenzi, caratterizzato da dialoghi apparentemente vuoti, che celano al loro interno un significato più profondo, un disagio universale. 

“Quando morì mio padre mia madre mi disse – È nelle stelle -.
Io le dissi: – La stella più vicina, esclusa quella lì, è lontana quattro anni luce e mezzo con temperatura in superficie di cinquemila gradi.
– Non è nelle stelle – le ho detto.
– È nella Terra. – 
Pensava di confortarmi. Lei era atea.
Altra cosa inesatta che disse era: il tempo cura le ferite.
No. Forse può farlo un cerotto.
La concezione del tempo è molto distorta per voi, nessuno qui, a parte Woodrow, sa cosa siano 15 minuti.”
“15 minuti sono 6200 ore.”
” … Esatto.”

Asteroid City, Wes Anderson, 2023

Quello dell’umanità che, incapace di provare emozioni, vive la propria vita come in sonnambula, in un mondo fittizio a metà tra sogno e la veglia. Che si trascina in avanti per inerzia, in una sorta di apatia perenne, conducendo la propria esistenza in modo distaccato, lontana da sé e dagli altri. 

Un sonno profondo, una particolare condizione che appare, sì, gravosa, quanto, forse, inizialmente necessaria. 
Perché non puoi svegliarti se non ti addormenti. 

Personaggi, attori, interpreti 

Asteroid City è una narrazione nella narrazione. E in essa i protagonisti sembrano smarrirsi, come in mezzo ad un deserto, senza trovare un inizio o una fine. 

Sono personaggi rotti, frammentati, carichi ognuno delle proprie incurabili fragilità. Incapaci di dar voce al proprio dolore, che diventa, pertanto, inesprimibile.

Sono uomini tutti d’un pezzo, cinici fanciulli troppo cresciuti, in grado di provare emozioni – di aprirsi ad un’emotività perduta – solo uscendo da loro stessi, destreggiandosi magari nella lettura di un qualche copione.
Ogni loro azione è controllata, trattenuta: nel dolore, nella rabbia, nella disperazione. 

Gli attori, poi, capiscono ancora meno dei loro personaggi, costantemente alla ricerca di un significato – il senso della commedia – che chiarisca loro come mettere in scena quei sentimenti così distanti. 

“Lo sto facendo bene?” “Ah. Beh, te l’ho detto, hai troppo da fare con la pipa, l’accendino, la macchina fotografica, le sopracciglia. Ma, a parte quello, nel complesso, per rispondere alla domanda – siediti – lo stai facendo benissimo. Per me infatti non sei solo diventato Augie, ma Augie è te!”
“Mi sento perso.” “Bene.”
“Lui è così ferito! È come se il mio cuore si spezzasse – parlo del mio – ogni sera.” “Bene.”
“Devo continuare così?” “Sì.”
“Senza sapere niente? “Sì.”
“Non dovrebbe esserci una qualche risposta, là, nel cosmo selvaggio? […] Ancora non capisco la commedia.” “Non importa, continua a raccontare la storia. Lo fai benissimo.”
“Mi serve aria fresca.” “Va bene. Però non la troverai.”

Asteroid City, Wes Anderson, 2023

I personaggi sembrano così assumere una dimensione ulteriore, divenendo più autentici dei loro interpreti. 

Che non capiscono la commedia, perché hanno smesso di capire la vita. 

Lo stile di Wes Anderson 

Ancora una volta, Wes Anderson mantiene immutati i tratti più caratteristici del suo stile, quelli che hanno contribuito a creare – fin dai suoi inizi – una vera e propria estetica cinematografica. 
Quel suo particolarissimo modo di “fare cinema”, che lo ha reso famoso in tutto il mondo. 

Perché, quando guardi un film di Wes Anderson, te ne accorgi subito?

In tutte le sue pellicole, la composizione è geometrica, perfettamente bilanciata in tutti i suoi elementi. Dietro di essa vi è, infatti, uno studio architettonico maniacale e ben preciso – non a caso il regista ha dichiarato che, se non si fosse dedicato al Cinema, avrebbe fatto l’architetto. 

Anche le riprese tradiscono un elevato rigore registico.
La macchina da presa non indugia mai, spostandosi sulla scena lungo i punti cardinali, con movimenti netti e precisi – da destra a sinistra, sotto-sopra e ancora sotto, indietro-avanti-indietro -, scandendo il ritmo della narrazione e contribuendo a definire i personaggi ed i loro stati d’animo.

Come nel caso di June Douglas, il cui sguardo severo rivolto al povero Montana è accentuato da una ripresa dal basso verso l’alto, atta a suggerire il potere e l’intransigenza della giovane insegnante. 

Bee-dee-dee-dee-bom-bom to San Fernando

Anche l’uso dei colori rimane profondamente fedele alla ormai consolidata estetica andersoniana.
Su tutti predomina l’azzurro, le cui tonalità sono presenti in ogni inquadratura: nel blu turchese del cielo, nelle sfumature azzurrognole dei tetti e delle pareti bianche degli edifici, nel grigiore dell’asfalto dell’unica polverosa strada che attraversa la cittadina. 

Se il blu (in tutte le sue variazioni cromatiche) funge da color-duttore nella fotografia del film, dominando – onnipresente – su tutti, ad esso il regista ne affianca molti altri, che contribuiscono a creare una palette dal gusto profondamente rétro, capace di catapultare lo spettatore indietro nel tempo. 

Come le varie tonalità di rosso, accostate all’avvenente Midge Campbell; o il giallo e il beige, presenti ovunque, tra le sabbie desertiche e i canyon di una cittadina in mezzo al nulla. Ambientazione che, per colori e caratteristiche, ha il potere di richiamare alla memoria qualche vecchia puntata dei Looney Tunes, con Willy il Coyote e Beep Beep come protagonisti (e la presenza di un piccolo geococcyx californianus sembra confermare la mia teoria). 

L’intensa luce verde proveniente navicella spaziale – che paralizza l’intera platea, gettando scompiglio – è il vero colpo di scena, il reale plot twist della storia. Essa si distacca dalla tavolozza del film, assieme al colore utilizzato per lo sguardo dell’alieno. Il cui rosso acceso (suo esatto complementare), ha il potere di rimarcare ancora una volta la straordinarietà dell’evento e la diversità tra la specie umana e quella dell’insolito visitatore. 

L’alieno 

Una delle tematiche principali di Asteroid City è sicuramente quella dell’alieno che, nell’opera teatrale scritta da Conrad Earp (famoso scrittore e sceneggiatore), si concreta proprio nella figura dell’extraterrestre sbarcato sulla piccola cittadina con l’intento di rubare – ed inventariare – l’asteroide. 

L’alieno esercita su tutti – personaggi, attori e pubblico in sala – indicibile mistero. Il suo fascino è racchiuso nella sua stessa figura, nelle storie e nelle ipotesi formulate su di lui, in quella diversità che lo discosta dagli esseri umani. Che lo rende al contempo affascinante e temuto, strano e pericoloso. Perché l’umanità è da sempre spaventata da ciò che identifica come diverso. 

E così, poco a poco, il mistero dell’alieno è svelato. Dalle parole del suo interprete nella commedia, che afferma, dietro alle quinte, di recitarlo “come una metafora”, anche se – “di cosa?” – non gli è chiaro. 

Dal racconto del sogno, nella scena tagliata con la defunta moglie di Steenbeck, dal quale si evince che l’alieno di cui i due parlano altri non è che il loro primogenito Woodrow: colui che timidamente tarda a sbocciare, ma che prima o poi lo farà. 

Alieno. 
Colui che non riesce a rispecchiarsi nella società in cui vive, all’interno della quale si sente un estraneo. Dalla quale viene etichettato ed escluso proprio a causa della sua diversità. 

Colui che non viene capito da chi lo circonda, e che lotta costantemente per ritagliarsi uno spazio nel mondo. Per non sparire del tutto, per mostrare il suo Io, agli altri. E attraverso lo sguardo degli altri, smettere finalmente di essere invisibile. Riuscendo finalmente a vedere se stesso. 

“Qual è la causa? Perché cerchi sempre una sfida?”
“Non lo so… . Forse è solo perché ho paura, 
che nessuno…
altrimenti…
noterebbe…
la mia esistenza 
nell’universo (?)”

Asteroid City, Wes Anderson, 2023

Alieni, come tutti coloro che credono che si sentirebbero “più a casa fuori dall’atmosfera terrestre”. Che riversano – in una frase, in uno sguardo – quel profondo senso di inadeguatezza che si portano costantemente appresso. 

Perché l’umanità, in fondo, non li rappresenta, costringendoli a vivere da veri e propri alieni sulla Terra. 

a cura di
Maria Chiara Conforti

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