Verso Santarcangelo Festival, l’intervista ad Alessandro Berti

Verso Santarcangelo Festival, l’intervista ad Alessandro Berti
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“Il teatro fa emergere nello spettatore l’esistenza di una cosa che si chiama coscienza” (Alessandro Berti)

Continuano le chiacchierate con i protagonisti di Santarcangelo Festival, in attesa dell’evento. Il protagonista di oggi è Alessandro Berti che porterà in scena Black Dick, uno spettacolo sull’uso del corpo del nero da parte della società bianca europea e americana: dalle colonie ai trionfi nello sport, dallo schiavismo ai linciaggi, dalla musica alla pornografia.

Noi abbiamo lo abbiamo incontrato, ecco cosa ci ha raccontato.

Alessandro, come pensi che ne uscirà il teatro da questo periodo?

È stato tutto molto illuminante. Le istituzioni culturali garantite hanno strepitato un po’ ma poi, coscienti che non avevano da temere alcunché, si son rimesse tranquillamente a lavorare, con meno foga e le stesse tutele. Cioè meglio, molto meglio di prima. L’esercito di precari invece ha dovuto, e ancora deve, decidere il da farsi, con fatica.

Il principio è quello che regna nella natura umana e nelle istituzioni più propense a assecondarla: chi più ha più avrà, chi meno ha, meno avrà (peraltro una citazione simile, sconcertante, è nel Vangelo, che forse, storicamente, ha dato il via a certe saldature inquietanti tra capitale e cristianesimo, anche se nel contesto in cui è pronunciata voleva dire esattamente il contrario: chi più dà più riceverà, ma l’interpretazione umana è sempre tirchia, faziosa, paracula).

I pesci piccoli saranno mangiati dai grandi, come cantavano Brecht e Weil, salvo nascondersi temporaneamente dietro uno scoglio, magari assieme a chi si ama, e aspettare che la buriana sia passata.

Secondo te, il teatro si può fare ovunque? Si può fare anche online oppure è una dimensione che non rispecchia l’essenza di questa arte?

Il teatro si fa dal vivo, anche per due spettatori, anche per uno soltanto purché prossimo. L’assenza del corpo fisico, della relazione sensoriale tra pubblico e interprete, rende il teatro assente. Quindi: tutto può essere fatto on-line ma si tratta di un altro linguaggio.

Pensiamo alla differenza tra spiare un rapporto sessuale tra due persone stando nascosti dietro una porta e guardare online una clip porno.

Nel tuo spettacolo porti in scena il “catalogo di un passato e un presente pieni di ipocrisie, omissioni, aggressioni, segregazioni e comodi riposizionamenti“, secondo te dov’è la linea di confine tra il conoscere veramente una determinata cultura e invece appropriarsene senza coscienza come avviene a volte da parte dei bianchi verso i neri?

Il tema dell’appropriazione culturale è un tema borghese. Chi ha tempo libero può chiacchierare di appropriazione culturale. In situazioni più radicali, nel cosiddetto popolo o quel che ne rimane, le alleanze avvengono, più fluidamente, sulla base di questioni concrete, materiali, da una parte (e qui i marxisti annuiscono, e io con loro) o ideali, di immaginario, dall’altra (e qui i cristiani annuiscono, e io con loro).

Ora, non vorrei che questa mia risposta sia interpretata come tartufesca, il solito paraculo catto-comunista. Nient’affatto. La mia posizione è schiettamente anarchica (cioè sarò fucilato dai compagni, come in Spagna) e cristiana ma non bigotta (cioè sarò bruciato dai preti, come Bruno).

E dunque? Dunque: se non si conosce la persona, il suo percorso biografico, le sue scelte, è difficile giudicarla. Si fa presto a mettere un like contro il razzismo su Facebook, più difficile è mediare coi vicini nigeriani che tutta la notte fanno casino, o magari anche pregano (quello che facevano, più o meno, gli italiani a Brooklin un secolo fa). La situazione è complessa.

Le scelte parlano. ‘Li riconoscerete dai frutti’ dice il Vangelo e ce lo ricorda Simone Weil. Molti progressisti sono solo degli identitari abitudinari che tolti dal loro guscio di privilegi diventano, in un attimo, reazionari. Ricordiamocelo. Non ci sono i buoni di qua e i cattivi di là. Magari fosse così ma non lo è.

Black Dick – Alessandro Berti
L’epidemia da Covid, insieme all’omicidio di George Floyd, ha contribuito a riportare l’attenzione su alcune forme di disuguaglianza. Cosa può fare pragmaticamente il teatro, e nello specifico il tuo spettacolo, per migliorare le cose?

Sì, la disuguaglianza è il problema, che presto scoppierà. Non dimentichiamoci però che la questione principale rimane il collasso climatico, che già ora rende le disuguaglianze ancora più grandi, in luoghi magari lontani da noi ma reali, dove la gente tuttora soffre e muore.

Detto questo, abbiamo visto che il maggior numero di morti di Covid, in Italia, si è avuto in Lombardia, la regione più wealthy del paese, non uno slum.

Quindi? Ancora una volta la situazione va letta con calma, senza occhiali ideologici. In Lombardia, siccome, a quanto capisco, ci si ammalava principalmente di cancro, si era creata una sanità centrata sulla risposta oncologica, un tipo di sanità per anziani cronici che si è rivelata, naturalmente, impreparata all’arrivo di una ‘vecchia’ polmonite virale, che invece andava affrontata in trincea, sul territorio, non negli ospedali, per quanto efficienti e di alto standard. Poi è vero che, anche tra i vecchi bergamaschi, sono morti probabilmente i migliori, i volontari delle parrocchie, i più generosi, mentre i milionari se ne sono restati in casa e l’hanno scampata.

Così negli USA, la percentuale di morti di Covid tra gli afroamericani è più alta (ma questo è un problema ancora più complesso, che riguarda una società, quella americana, che ho sempre giudicato terribile, nella sua indifferenza glaciale ai problemi complessi, come la giudicò Giovanna Marini nel suo memorabile album del 1966: Vi parlo dall’America, ascoltatelo, è ancora attualissimo).

Cosa può fare il teatro? Per me una cosa sola: fare emergere nello spettatore l’esistenza di una cosa che si chiama coscienza. Che per me si può anche tradurre così: la necessità impellente di provare a dirsi la verità, costi quel che costi. Ecco, il teatro, come qualsiasi azione umana degna, dovrebbe aiutare a fare questo.

a cura di
Daniela Fabbri

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

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