Lettera aperta di una giovane precaria

Lettera aperta di una giovane precaria
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Lettera di un’insegnante precaria in difesa della scuola italiana.

La scuola italiana sta morendo. Quante volte ci siamo sentiti dare dei fannulloni, o di quelli che hanno due mesi di vacanza, che non preparano adeguatamente i propri studenti? Ve lo dico io, troppe.

Sono cresciuta con l’idea diffusa che chi lavora nello Stato è un privilegiato, perché fa poco e prende comunque poco, ma è sicuro e comunque molto rispetto a ciò che viene richiesto. Perché si diffonde questo falso mito, ci chiediamo? Perché è del tutto vero. Almeno per alcuni. 

La prima difficoltà da affrontare è che non c’è un vero e proprio controllo sull’operato di tutti i docenti, quindi è complicato distinguere tra chi svolge il proprio lavoro con passione, entusiasmo e impegno e chi no.

Il contratto prevede le famose “18 ore”, ma sono (o dovrebbero essere, per lo meno) una minima parte del lavoro da svolgere: tra preparare (bene) lezioni e verifiche, correggere temi, trovare approfondimenti e, non ultimo, essere puntuali sugli adempimenti burocratici (ne vengono richiesti sempre in numero maggiore), l’insegnante ha un carico di lavoro esattamente pari a qualunque altro mestiere.

E mi pare giusto, anche se sarebbe bello poter svolgere quelle ore e quelle preparazioni in ambienti idonei: capita molto spesso di stampare da casa o usare la propria connessione internet, per non parlare del fatto che non abbiamo alcun diritto a rimborsi chilometrici (anche se molti di noi ne fanno di strada, ogni giorno, per recarsi sul posto di lavoro) o a buoni pasto, in caso ovviamente di un orario sia antimeridiano che post.

La professione docente è scaduta così in basso negli ultimi anni, che molti genitori con cui ci confrontiamo si sentono in diritto, anzi no, in dovere, di “darci suggerimenti” sul programma, ci chiedono spiegazioni e noi dobbiamo giustificarci, arrivando a sentirci noi gli interrogati, e non gli studenti.

Ma non sui banchi di scuola: sembra più un interrogatorio di giustizia, con l’occhio di bue puntato in faccia e la madre e il padre dell’alunno scapestrato in questione che giocano al poliziotto buono e quello cattivo, mentre tu ti fai sempre più piccolo dietro la cattedra balbettando le tue ragioni, che possono essere più che lecite, ma non ha alcuna importanza. 

Ormai viviamo nel terrore: i professori dei genitori, gli studenti dei genitori, i genitori… del fallimento. Non è più socialmente accettabile il voto negativo, l’interrogazione andata male, la giornata storta… Ci sono studenti maniacalmente attenti alla propria attività scolastica, il che è un bene, per carità, ma anche uscire con gli amici, fare esperienze, vivere la propria adolescenza serenamente può avere il suo fascino.

Ci sono poi studenti – e purtroppo, in alcune realtà e scuole, sono la maggioranza – che non ne hanno voglia. Magari sarebbero pure bravi, e ti fanno arrabbiare perché sai che potrebbero dare di più, alcuni con poco sforzo arriverebbero anche all’eccellenza, ma, vuoi mettere l’attrattiva dell’ultimo video su TikTok con il canto XXI dell’Inferno di Dante? Non c’è paragone, ovviamente. 

Non aiuta l’idea che qualunque cosa accada sia sempre e comunque colpa del docente: tuo figlio prende 5? Si richiede un incontro con il professore, possibilmente “con urgenza”. Il ragazzo risponde male e prende una nota? Si scrive una mail piccata al coordinatore di classe, facendo convocare un consiglio di classe straordinario per discutere della questione. Lo studente viene scoperto a copiare? Va in presidenza a lamentarsi.

Naturalmente non aiuta essere un docente precario, quindi in sostituzione di qualcuno, magari giovane, magari non incline alle urla per farti ascoltare.

Non iniziamo nemmeno il discorso delle strutture: computer obsoleti, sale insegnanti inesistenti, aule dove non si possono spostare i banchi per sicurezza, laboratori informatici inutilizzabili o inesistenti.

Ma questa lunga premessa non deve sviare dal punto focale del mio testo: “in difesa”, ho scritto in apertura. Ci sarebbe da chiedersi se c’è ancora qualcosa da difendere. Cosa rimane dell’antico splendore di cui ci fregiamo da secoli, della grandezza dei nostri maestri, filosofi, letterati, scienziati? O, per dirla con parole ben più auliche delle mie: 

“Or dov’è il suono

Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

De’ nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio

Che n’andò per la terra e l’oceano?”

L’Italia è uno dei paesi con più storia, arte, siti Unesco al mondo: siamo invidiati per la nostra lunghissima tradizione di poeti e ancora oggi vantiamo delle eccellenze nazionali in ogni campo, dalla medicina alla cinematografia. 

Tutti questi personaggi, dai più famosi agli eroi sconosciuti che proprio in questi giorni svolgono il proprio lavoro nei laboratori, contribuendo a ridurre, per quanto possibile la diffusione del virus, avranno studiato da qualche parte, no? 

Senza alcuna pretesa di superiorità, anche perché non corrisponderebbe alla realtà, rispetto ad altri paesi, penso di poter affermare con certezza che abbiamo ancora una speranza: i programmi sono di molto migliorabili, ci sarebbe da rivedere anche l’impostazione didattica, spesso inadeguata rispetto alle nuove generazioni, ma, in definitiva, c’è qualcosa da salvare?

 Ebbene, io credo di sì. Abbiamo centinaia di professori preparati che si impegnano quotidianamente per offrire qualcosa di innovativo e interessante ai propri studenti. Abbiamo migliaia, milioni, di precari che mandano letteralmente mandano avanti le scuole, svolgendo funzioni fondamentali e prendendosi responsabilità importanti, spesso anche incarichi facoltativi, studiando da soli il modo di formarsi e di garantire il successo dell’anno didattico.

Ci sono molte famiglie attente alla vita dei propri figli, educandoli in modo da farli diventare persone consapevoli, rispettose, attive. Infine, ci sono tanti studenti motivati, che fanno domande, che sono curiosi, vogliosi di imparare. Non tutti, ovviamente, ma allora, dove sarebbe la soddisfazione?

a cura di
Irene Lodi

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