Quando un razzo arrivò davvero in Russia: storia di Viktor Coj e del Rock in U.R.S.S.

Quando un razzo arrivò davvero in Russia: storia di Viktor Coj e del Rock in U.R.S.S.
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Qualche anno dopo Rocket to Russia dei Ramones, dall’altra parte del mondo, in U.R.S.S., successe qualcosa di inaspettato. Forse davvero quel razzo era arrivato in terra sovietica. Fatto sta che a partire dagli anni Ottanta, sulla scena musicale russa fecero la loro comparsa i Kino, la band capitanata dal leggendario Viktor Coj.

Morto a ventotto anni in un incidente automobilistico, Coj ha comunque fatto in tempo a realizzare canzoni e dischi che sono entrati nella leggenda e a contrastare la censura del regime sovietico nei confronti della musica rock.

Non si rockeggia in Russia

A quei tempi, il rock in Unione Sovietica era vietato e ci si poteva esibire soltanto se si era musicisti “statali”. Inutile dire che la musica di un artista promosso dal regime era quello che di più lontano ci si poteva immaginare dalla musica Rock come la intendiamo noi.
Chi il rock lo faceva davvero era costretto alla clandestinità. Si suonava senza strumenti acustici, per evitare di essere rintracciati e arrestati dalla polizia, e spesso questi “concerti” venivano svolti in appartamenti, in presenza di poche decine di persone ammassate l’una con l’altra.

La leggenda di Coj

Viktor Coj, o come viene spesso traslitterato “Tsoi“, nacque a Leningrado nel 1962, da padre di origine coreana e madre russa.
Fin dai suoi primi anni, la sua vita non seguì il modello di un musicista sovietico accettato dal regime: fu espulso dalla scuola d’arte, studiò intaglio del legno e lavorò per un paio d’anni nel locale caldaia del suo condominio, soprannominato Kamchatka, che ora è un museo commemorativo a lui dedicato. Agli occhi della società sovietica, Coj incarnava il tipico buono a nulla, l’ingranaggio imperfetto della macchina proletaria.

Nel 1982, insieme al chitarrista Alexey Rybin, formò i Kino. A quei tempi più che una band era poco più di un duo folk con le idee confuse. Negli anni si allontaneranno e aggiungeranno altri membri, fino alla formazione definitiva.

I primi album dei Kino si diffusero su bobina ed erano quello che oggi è per noi, l’auto-pubblicazione: magnitizdat. Queste bobine avevano lo scopo di eludere la censura politica sovietica e diffondere il più possibile la propria musica.

Fin dai primi dischi, seppure molto acerbi colpiscono i testi. Si parla della monotonia della vita borghese, dell’omologazione voluta dal regime, di libertà. Viktor Coj era la figura carismatica di cui la scena musicale russa aveva bisogno.
I Kino, e in particolare Coj, si fecero portavoce del cambiamento che i giovani chiedevano.

I Kino in Europa e in Italia

Con la perestrojka e lo sgretolamento delle barriere tra est e ovest i Kino arrivarono anche in Occidente. Nel 1988, in estate, parteciparono al primo festival del rock sovietico organizzato a Melpignano, in provincia di Lecce. I Kino suonarono un paio di canzoni, prima di Litfiba e CCCP, ma furono poco considerati o presi poco sul serio.

Coj una volta tornato in patria dopo il tour europeo di quell’anno, racconterà in una intervista di aver avuto l’impressione di essersi trovato di fronte un pubblico che “si aspettava qualcosa di russo e di esotico”. Dichiarò: “non c’è davvero un approccio serio alla Russia, siamo come delle bambole matrioska per loro: ehi, guarda, i russi possono suonare la chitarra quasi come noi“.

“Stiamo aspettando cambiamenti”

I Kino tennero il loro ultimo concerto a Mosca, allo stadio Luzhniki, nel giugno del 1990. Un paio di mesi dopo, Coj morì in un incidente d’auto. In seguito alla sua morte, sul quotidiano russo Konsomolskaya Pravda venne definito come un personaggio più significativo “di ogni politico, celebrità o scrittore” per i giovani dell’Unione Sovietica.

Ancora oggi, a quasi trent’anni dalla sua morte, Coj incarna un ideale di libertà di espressione che forse, continua a mancare.

C’è un film che è diventato un piccolo culto, in Russia. E’ “Assa“, del regista Sergej Solovyov. Coj fa un cameo. L’ultima scena lo vede camminare in un lungo cappotto nero tra le sale vuote, prima di entrare in ufficio, dove una donna, la direttrice del ristorante, seduta ad una scrivania, gli legge un lungo elenco di regole e regolamenti da seguire durante l’esibizione che si terrà dopo poco. Coj, mentre lei sta leggendo, si allontana, si toglie il cappotto e sale sul palco.

Dopo qualche anno, il cambiamento che desiderava Coj, e che cantava nelle sue canzoni, arrivò e l’Unione Sovietica si sgretolò. Nonostante tutto però nella Russia di oggi c’è ancora posto per “la donna che legge le regole”, Coj invece se n’è andato da tempo.

a cura di
Daniela Fabbri

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

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