Il mondo di PON¥ attraverso il suo singolo “Branchie”
“Branchie” è il nuovo singolo di PON¥ disponibile dal 24 febbraio, che anticipa il primo album in uscita venerdì 10 marzo, una nuova avventura nel cantautorato lo-fi indipendente dal titolo “CANZONI MOSTRI”.
In “Branchie”, chiudendo gli occhi, si viene trasportati dalle onde del mare blu, “dove l’acqua è purissima”. Un esperimento che ha portato a un processo creativo in grado di sfruttare il minimo per raggiungere “il massimo indispensabile”.
L’etichetta discografica La Valigetta è riuscita a catturare l’essenza di PON¥ e del suo mondo lo-fi. I riverberi che compongono le contraddizioni dei suoi vissuti e un silenzio che entra di soppiatto nella ragion d’essere.
Le parole dell’artista in questa intervista confermano un ritorno all’essenzialità, una ricerca profonda di intimità e la pace ritrovata nella sua musica.
Ciao PON¥, benvenuto su The Soundcheck. La curiosità mi spinge a chiederti: come è nata la collaborazione con l’etichetta discografica La Valigetta?
Cercavo un’etichetta che facesse uscire un progetto abbastanza assurdo composto da tre dischi, e su consiglio di Riccardo di Dellacasa Maldive ho scritto a Marco inviandogli il materiale. Gli è piaciuto. I dischi sono diventati uno solo, preceduto da qualche singolo. Direi che è stato meglio così.
“Branchie”, singolo uscito il 24 febbraio, è stato il primo scritto come PON¥ e fa da apripista al tuo album “CANZONI MOSTRI”. C’è una particolare ragione della scelta di questo brano come anticipazione al disco?
I due singoli usciti in precedenza e inclusi nel disco (Safari e Dentro) sono sicuramente le mie canzoni più “pop”, Branchie è l’unico altro pezzo con una struttura canonica: per il resto la scelta era tra una strumentale, una canzone senza struttura né metrica, un’altra di due minuti che si compone di fatto di una sola strofa e altre due rispettivamente di sette e otto minuti. Direi sia stata una scelta obbligata.
Qual è stato il processo creativo per la composizione di “Branchie”?
L’ho scritta e registrata seduto sul letto della casa dove abitavo a Milano, circondato da gatti e cani, su una vecchia chitarra classica scordata e senza una corda. Non lo dico per posa, era davvero scordata e senza una corda, mai saputo accordare nulla io. È stata un po’ la canzone che ha definito quello che avrei fatto da lì in poi, una specie di manuale di istruzioni. Parla di sentimenti semplici, resi difficili.
Come mai hai scelto di adottare una produzione lo-fi, invece di affinare il suono e renderlo più pulito e meno impreciso?
Perché non voglio più entrare in uno studio, non voglio più che altri mettano mano a quello che scrivo, e perché ho fatto anni a cercare un suono e credo di averlo trovato in fruscii, sbavature e riverberi. Ho sempre odiato la mia voce, e finalmente suona come dovrebbe.
Da quale artista prendi ispirazione e con chi ti piacerebbe collaborare in futuro?
Ci sarebbero davvero troppi nomi da fare. Ti dico Daniel Johnston per purezza creativa, Elliott Smith per talento e scrittura. E John Frusciante per libertà creativa. Frusciante solo nel suo ondivago e imprevedibile percorso solista però: mi hanno sempre fatto schifo i RHCP. Riguardo il collaborare con qualcuno mi basta avere Maria Valentina Chirico nel disco: la più grande artista che abbiamo oggi in Italia, una voce e un suono incredibili. Il fatto che sia semi sconosciuta mi fa davvero rabbia.
Il 10 marzo uscirà, appunto, il tuo primo album “Canzoni mostri”, c’è qualcuno a cui senti di dedicarlo?
Suonerà infantile, ma direi al mio gatto che è morto a ottobre. L’essere più docile e dolce che io abbia mai incontrato, il mio migliore amico per tredici anni.
Qual è il tuo sogno nel cassetto e come ti vedi nel futuro?
Il mio sogno è e sempre sarà quello di scrivere un disco fuori da ogni epoca, logica o definizione. Come Desertshore e The Marble Index di Nico, o Tilt di Scott Walker. Dischi alieni e senza tempo. Mi piacerebbe avere quel talento. E non so come mi vedo in futuro, non so vedermi nemmeno ora figurati.
a cura di
Rebecca Puliti
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