La morte che abbatte la “quarta parete” della vita: “Primo Piano Interno Tre”

Fino a che punto il frutto della nostra fantasia e creatività può condizionare le nostre vite? Il romanzo di Valentina Evangelista ci porta in un luogo in cui la morte ha un ruolo fondamentale
Uno strano condominio, nel quale si scontrano quotidianamente due figure tanto antitetiche quanto complementari.
Livio, un giovane scrittore, anticonformista e ribelle e il Signor Rufini, ex impiegato di banca con tutti i tratti e i vizi più insopportabilmente borghesi che si possano immaginare.
Presto si unirà al loro bizzarro duo, un’altra figura assai particolare di quel singolare palazzo, la Signora Moretti.
In breve tempo emergerà che, in realtà, la donna e i sopracitati condomini maschi, hanno in comune molto più di quanto possa sembrare: sono tutti e tre morti.
Ciascuno in circostanze peculiari, con dinamiche diverse. Ciascuno ritrovandosi catapultato, con una consapevolezza differente, in una dimensione nella quale continua ad essere spettatore delle vite altrui, all’interno di quello stesso stabile, potendo, però, interagire, solo con gli altri non vivi.

Un mènage à trois che, almeno inizialmente, non pare promettere nulla di buono.
“Si nasce soli e si muore soli” è un’espressione che ho sempre detestato in vita, e che odio ancora di più ora. Della nascita non ho memoria, ma so per certo che in quell’occasione qualcuno ti dà una mano a uscire e che in molti aspettano trepidanti il tuo arrivo. Certo, possono pentirsene anche solo dopo pochi giorni, quando il candido fagottino che sei inizia a creare scompiglio in una vita fino ad allora tranquilla. Sul momento in cui me ne sono andato, e anche di quando lo ha fatto Rufini, posso dire di avere invece alcune certezze. In quel momento puoi essere solo, ma non è detto. Io lo ero. Lui, invece, ha avuto me, anche se è l’ultima cosa che entrambi avremmo desiderato. La Moretti ha avuto entrambi, sebbene ancora non lo sappia. E non so dire a chi di noi sia andata peggio.”
Eppure, il microcosmo delle dinamiche relazionali, a tratti anche comiche, che coinvolgono questo singolare terzetto e che l’autrice tratteggia nelle prime pagine, velandolo magistralmente di estrema leggerezza, si rivela, man mano, ben più serio e profondo.
Trascende i limiti dell’indifferenza e del grigiore che hanno segnato la vita, acquisisce una nuova profondità, dettata da una crescente consapevolezza, si evolve in una sorta di alleanza salvifica.
Perché man mano che la narrazione procede, con la medesima delicatezza, lieve ma incessante, della genesi di una magnifica stalattite, si palesa in tutta la sua drammaticità la vera causa della morte di Livio e stridono con insostenibile clangore tutti quei nodi di metallo che rendono la sua dipartita irrisolta tanto quanto la sua stessa vita.
L’arrivo nell’appartamento di Livio di una nuova bellissima inquilina, Giulia, e l’identità del tutto inattesa della ragazza che prenderà corpo pagina dopo pagina, porterà il protagonista a trovare risposte a domande e dubbi che, in precedenza, non lo avevano neppure sfiorato.
Per la prima volta mi sfiora il pensiero che il senso di solitudine di cui ho tanto sofferto non sia stato affatto causato da una sventurata condizione esistenziale, come mi sono sempre raccontato con convinzione, ma da una scelta dettata dall’incapacità di affrontare le mie paure, di misurarmi con ciò che sfuggiva al mio controllo. Ho vissuto nel millennio dell’intelligenza emotiva, delle neuroscienze applicate alle emozioni, della ricerca spasmodica della felicità, ma questo percorso impervio e accidentato con un incerto punto d’arrivo l’ho sempre osservato solo da lontano e con lo scetticismo dei perdenti ho scelto di non intraprenderlo mai. Non tentare mi ha messo al riparo dal rischio di un fallimento, ma mi ha soprattutto impedito di vivere. E questo particolare lo considero per la prima volta.
Verrebbe da pensare che ormai non ci sia più nulla da fare e che sia impossibile porre rimedio a quanto non si è stati in grado di fare quando se ne aveva l’opportunità. Eppure, nell’istante stesso in cui Livio si rende conto di quanto ciò che ha partorito la sua fantasia ha sfondato la “quarta parete” della sua realtà, dirottandone tragicamente il percorso e plasmandone la fine, comincia a palesarsi, sorprendentemente, una seconda possibilità.
Una possibilità che neppure la dimensione insondabile della morte può cancellare.
Cosa accada dopo la morte, se ci sia un Dopo e come sia, ognuno di noi se lo è domandato almeno una volta, ma di dove vadano a finire le intuizioni, le fantasie e le idee che produciamo in vita, forse non ci siamo interrogati granché. I più sentimentali sono convinti che tutto ciò rimanga vivo nella memoria di chi resta sulla Terra e che, nel migliore dei casi, continui a esistere attraverso la testimonianza tangibile rappresentata da libri, film, canzoni e da ogni altra forma d’arte partorita dall’uomo. Ma nessuno ha considerato l’eventualità che l’essenza più profonda di quelle forme espressive potrebbe a un tratto decidere di traslocare altrove: personaggi che fuggono dai film e dalle pagine, note che evadono dai pentagrammi, sfumature dalla tela, intenzioni da una danza.
Ciascun uomo uccide ciò che ama, scriveva Oscar Wilde. Uccide, ma al contempo può venirne, a sua volta, ucciso. E forse è esattamente questa la verità che Valentina Evangelista vuole sussurrarci, con la stessa grazia di una brezza marina che ci scompiglia i capelli, le emozioni e i pensieri.
Ci sono tasselli smarriti, di mosaici imperfetti chiamati “esistenze”, che possono trovare la loro giusta collocazione anche quando ormai sembra troppo tardi.
Ci sono crepe profonde e frammenti aguzzi che possono essere ricomposti anche quando siamo ormai quasi rassegnati all’idea di avere mani troppo ferite e sanguinanti per riuscirci.
Perchè “…la vita è una pazzia, la morte stessa lo è, e noi che ce ne stiamo qui a distinguere tra realtà e finzione siamo ancora più folli…”
E forse è proprio questa follia a definire la nostra essenza.
A farci trovare il coraggio di percorrere, seppur sghembi, claudicanti e, talvolta, ciechi, quel breve tratto di cammino che ci è concesso di percorrere.
E di disseminare, lungo di esso, briciole di sentimento, di anima e di emozione.
Quelle che, una volta riconosciute e raccolte, ci consentiranno di ricostruirci e di “essere” anche oltre.
Anche altrove.
Anche là dove la nostra capacità di comprensione non riuscirà mai a spingersi.
a cura di
Romina Russo