“The Witcher: Blood Origin” e gli spin-off inutili

“The Witcher: Blood Origin” e gli spin-off inutili
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Come franchise di un certo successo (o clamore) vengono spremuti fino al midollo pur non avendo in mente una direzione precisa. Prendiamo “The Witcher: Blood Origin” come spunto per un discorso che abbraccia fin troppi casi

The Witcher Blood Origin” poteva essere un’ottima occasione per spiegare e approfondire ciò che nei romanzi e nei videogiochi dedicati alla saga di Geralt di Rivia viene solo accennato. Raccontare la vita prima della congiunzione delle sfere (una sorta di Big Bang che ha portato spazio e tempo a collidere e a mischiare universi paralleli); descrivere e mettere su schermo l’impero degli Elfi, come fosse già fragile l’equilibrio tra loro e i nani, come fosse la loro società, quantomeno nelle sue espressioni e abitudini più generali.

Poche righe da seguire, tanto da creare. Hanno invece optato per quattro episodi di durata variabile tra i 42 e i 60 minuti, dove tante cose non funzionano sin dai primi istanti. Elfi la cui unica differenza con l’essere umano è avere le orecchie un po’ a punta, hanno sì smania di potere com’è plausibile che sia, ma il loro rinomato essere eleganti e austeri, orgogliosi e altezzosi al limite della xenofobia si perde quasi completamente.

The Witcher: Blood Origin
“Ehi! Questa è la maxi storia di come la mia vita è cambiata, capovolta sotto sopra sia finita. Seduto su due piedi qui con te ti parlerò del witcher, super fico di Xin’trea”
Le basi, mancano le basi

Tralasciando la CGI vecchia almeno 10 anni, non è possibile caratterizzare visivamente gli elfi piantando due orecchie a punta sugli attori e basta. Gli elfi hanno altre caratteristiche fisiognomiche per occhi, mani, statura; possono essere pallidi o fucsia, non importa, ma alcuni aspetti sono ben descritti e indicati nel mondo degli strighi, anche attraverso codecs che narrano epoche lontane da Geralt di Rivia (e dunque in focus per questa mini-serie).

Anche un certo portamento è fondamentale nella caratterizzazione degli elfi. Non puoi farli comportare da gang dei bassifondi di New York, né da altezzosi ragazzini che sembrano usciti da una puntata di “Gossip Girl”.

Gli elfi di “The Witcher Blood Origin” possono essere un qualsiasi personaggio di qualsiasi altra serie fantasy o non fantasy, ed è lì il dramma fondamentale. Se non dai una caratterizzazione decente al personaggio e, in questo caso, a un’intera razza fantasy, pur con tutte le sfumature possibili che puoi creare ex-novo, le fondamenta scricchiolano terribilmente. Questi personaggi andrebbero benissimo anche per una serie basata su Prince of Persia, per un reboot tamarro di Hercules o per un Suicide Squad con meno personalità.

The Witcher: Blood Origin
Bella la compagnia dell’Anello. Frodo lo ricordavo diverso
La banalità come arma di distruzione di massa

Il guaio più grande di “The Witcher: Blood Origin” è che vuole raccontare parte di una storia molto più grande. La banalizza con una storyline amorosa al limite dello stucchevole, artificiosa e fastidiosa, o con situazioni fuori contesto, così come lo sono certi spiegoni mal celati sulla futura “prova delle erbe” che trasformerà chi sopravvive in ciò che in futuro verrà riconosciuto come cacciatore di mostri. A tal proposito, la “mutazione” è forse una delle pochissime cose che possiamo salvare di questa mini serie, pur non esente da errori o scelte discutibili (tempistiche, principalmente, ma non vogliamo fare spoiler).

Si accenna ai nani, ma c’è solo una rappresentante (forse l’unico personaggio caratterizzato decentemente, il che la dice lunga); si accenna alle driadi e non vengono mostrate a schermo. Si parla di clan, tribù massacrate in una epurazione fratricida, ma noi continuiamo a non saperne nulla. Così come, di contro, avremmo preferito non sapere nulla della congiunzione delle Sfere, se la spiegazione data è quella delle battute finali.

Ci abbiamo sperato fino alla fine, eh
Unum castigabis, centum emendabis”: un confronto nel bene…

The Witcher: Blood Origin” è spunto per una riflessione un po’ più ampia che riguarda gli spin-off che infestano i palinsesti delle piattaforme streaming e, di tanto in tanto, anche le sale cinematografiche. L’idea di espandere un determinato universo, spiegare l’origine di un personaggio, narrare l’evoluzione del mondo o, perché no, l’evoluzione di un personaggio secondario, è lodevole, laddove sia fattibile.

Operazioni del genere, se pensate e realizzate con attenzione, porta a lavori di pura eccellenza. Pensate a “Better Call Saul”, nato come spin-off di “Breaking Bad”: è diventato uno degli show migliori degli ultimi trent’anni. “House Of The Dragon”, che con “The Witcher: Blood Origin” condivide un’origine letteraria fantasy, ha alle spalle un buono studio delle casate e della storia che, anche qui, si posiziona secoli prima della serie principale; si è optato per più stagioni e un buon numero di episodi, scelta non scontata, se si vuole raccontare bene una vera e propria era.

Menzione d’onore per “Xena – Principessa guerriera”, ma lì entriamo in un meraviglioso vortice di trash, low budget e azzeccata voglia di non prendersi sul serio.

The Witcher: Blood Origin
“Questo è un pezzo un po’ vecchio… Beh, un po’ vecchio dalle mie parti. Si intitola ‘Fear of the Dark’. Forse voi non siete pronti, ma sono sicura che ai vostri figli piacerà”
e nel male

Ci sono, poi, operazioni la cui ambizione non va di pari passo con la realizzazione effettiva, come “Gli Anelli del Potere”. Serie non pessima, ma che spesso si perde in un bicchiere d’acqua o in personaggi il cui atteggiamento e le cui decisioni risultano fuori contesto, rispetto a quello che sono il mondo e le sovrastrutture pensate da Tolkien.

Gli spin-off peggiori sono però quelli che vogliono cavalcare l’onda del successo della serie principale a tutti i costi, anche se sceneggiatori e produttori non hanno la minima idea di dove andare a parare. Casi storici sono “Joey”, da “Friends”, che voleva approfondire la vita e la figura di Joey Triviani senza sapere bene come, tanto che Matt LeBlanc odia quella serie, e “The Carrie Diaries”, incentrata sulla gioventù di Carrie di “Sex and The City”, ma ha solo generato l’appeal di una camicia marca Docce & Gabbiana. Prodotti senza senso di esistere, che nei casi più gravi rischiano addirittura di minare la fama della serie principale.

L’avvocato del diavolo

“Battere il ferro finché è caldo”, da un certo punto di vista, è comprensibile e giusto. Sfruttare la fortuna di una serie per creare prodotti corollari non è un male. Tuttavia, chi è chiamato a realizzare queste opere deve avere l’accortezza di studiare il materiale originale. Chi ha il potere economico, il buon senso di dare una finestra di produzione sufficiente per poter creare qualcosa di quantomeno decente.

In caso contrario, continueranno a proliferare i “The Witcher: Blood Origin” (e le occasioni mancate come “The Witcher: Nightmare of the Wolf”, giusto per rimanere in tema di strighi) o operazioni simil reboot come “Resident Evil”. Ma quella, seppur molto connessa, è un’altra storia.

a cura di
Andrea Mariano

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Andrea Mariano

Andrea nasce in un non meglio precisato giorno di febbraio, in una non meglio precisata seconda metà degli Anni ’80. È stata l’unica volta che è arrivato con estremo anticipo a un appuntamento. Sin da piccolo ha avuto il pallino per la scrittura e la musica. Pallino che nel corso degli anni è diventato un pallone aerostatico di dimensioni ragguardevoli. Da qualche tempo ha creato e cura (almeno, cerca) Perle ai Porci, un podcast dove parla a vanvera di dischi e artisti da riscoprire. La musica non è tuttavia il suo unico interesse: si definisce nerd voyeur, nel senso che è appassionato di tecnologia e videogiochi, rimane aggiornato su tutto, ma le ultime console che ha avuto sono il Super Nintendo nel 1995 e il GameBoy pocket nel 1996. Ogni tanto si ricorda di essere serio. Ma tranquilli, capita di rado. Note particolari: crede di vivere ancora negli Anni ’90.

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