Il mostro di Udine: un caso italiano, e si vede

Il mostro di Udine: un caso italiano, e si vede
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Il 22 maggio 2019 è andata in onda su Sky la prima serie di real investigation tutta italiana: “Il mostro di Udine”. Creata da Matteo Lena e Francesco Agostini, la produzione originale del canale Crime+Investigation segue le orme del trend, ormai sempre più ricercato, del true crime americano.

Un caso di cronaca nera, nove donne uccise nei pressi di Udine tra il 1971 e il 1989, ma nessun arresto, non un colpevole trovato, non l’assassino.
Chi ha ucciso Maria Luisa Bernardo, Maria Carla Bellone, Marina Lepre, Luana Gianporcaro, Aurelia Januschewitz, Irene Belletti, Jacqueline Brechbuhler, Maria Bucovaz e Stojanka Joksimovic?

Rispettiamo tutte le regole del true crime

La docuserie vuole prendere in analisi proprio un cold case, ovvero un caso irrisolto accaduto molti anni prima e riaperto solo di recente grazie a nuove prove. Un grande classico delle serie investigative.

E proprio come tutte le serie true crime, il formato prevede pochi episodi (solamente 4) e si concentra sulle testimonianze dirette dei protagonisti della vicenda.

Vediamo parlare, in una specie di confessionale, coloro che all’epoca indagarono al caso. Le loro testimonianze sono accompagnate da ricostruzioni con attori, ma anche dalle immagini reali delle vittime e dei reperti.

Fin qui sembra essere davvero una docuserie americana, gli elementi ci sono tutti… Forse troppi.

Ci siamo forse fatti prendere un po’ troppo dall’entusiasmo?

A rendermi perplessa sono i momenti in cui vediamo i veri protagonisti della vicenda, investigatori, carabinieri, avvocati e anche i familiari delle vittime, posti in situazioni che dovrebbero essere reali, ma che sono ovviamente costruite.

Come se fossero degli attori messi lì per ricreare delle scene, li vediamo intenti ad indagare nuovamente sul caso.
Non che gli attori veri e propri delle ricostruzioni siano da premio Oscar.

Il regista stesso, Matteo Lena, compare insieme all’ex carabiniere Edi Sanson per andare a fare ricerche. I due vanno a casa di alcuni sospettati, fanno telefonate, si siedono al tavolo a discutere sul da farsi e non mancano frasi ad effetto che dovrebbero dare enfasi alla situazione. Il problema è che sembrano più due inviati delle Iene.

Il momento di delirio più alto, però, lo abbiamo nell’ultimo episodio. Dopo tre episodi concentrati sul principale sospettato e sulle storie di ognuna delle vittime, si arriva, non so come, a parlare di altri omicidi irrisolti, sempre in Friuli.

Il punto è che viene detto chiaramente che questi omicidi non possono essere collegati agli altri e che i sospettati sono diversi, alcuni addirittura con degli alibi validi, quindi perchè inserirlo nella serie? Per allungare il brodo?

Troviamo il buono

Nonostante tutto, bisogna prendere atto del fatto che sia una produzione italiana, con un caso italiano probabilmente privo di sconcertanti colpi di scena a cui siamo abituati con i serial killer di oltreoceano, e quindi, con così pochi elementi c’è ben poco da raccontare. Manca quel senso di paura e turbamento che normalmente si prova a guardare queste serie.

La parte più interessante, però, al di là di come sia stata realizzata la serie, è vedere una situazione sociale molto triste. Una città come Udine, in apparenza tranquilla, nasconde brutte verità.

Tutte le donne uccise avevano problemi, alcune erano prostitute, altre avevano problemi di alcolismo, e nel racconto viene fatto presente che alle persone non importa se muoiono. C’è chi accusa i carabinieri di non aver fatto indagini approfondite, perchè non ritenevano questi omicidi così rilevanti.

Ciò su cui consiglio di concentrarsi, quindi, non è sul fatto di aver avuto un probabile serial killer in Italia. Se si pensa di guardare una sensazionale serie investigativa all’americana, si casca male (non che non ci siano serie orribili made in USA).

Bisogna porre l’attenzione su un problema sociale, su come le persone percepiscono la violenza e dei pregiudizi morali che impediscono di vedere una determinata realtà.

a cura di
Valentina Dragone

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