Ha ancora senso fare dischi o è il momento di arrendersi alle playlist di Spotify?

Ha ancora senso fare dischi o è il momento di arrendersi alle playlist di Spotify?
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I dischi non si vendono più, ora esistono le playlist.” Quante volte l’abbiamo sentito dire? Tante. È vero? In parte. I dischi non si vendono più nel modo in cui si vendevano prima, così sarebbe meglio dire.

Ha ancora senso farli? Forse no, forse sì. Voglio provare a raccontare ciò che sta succedendo in un mondo, quello della discografia, che rappresenta appieno la velocità con cui tutto si trasforma.

Andiamo con ordine: i dischi non si vendono più perché il disco, ormai, è un oggetto obsoleto, superato, la musica è liquida, si ascolta online, si consuma in una manciata di click. Questa è una verità imprescindibile, il numero degli album fisici realmente venduti diventa giorno dopo giorno sempre più irrisorio.

Dischi: ha ancora senso farli?

Quello di cui voglio parlare io, però, non è il disco in quanto oggetto, ma in quanto progetto. Cos’è un album, in fondo? Una raccolta di canzoni che trovano senso nel momento in cui fanno parte di un disegno comune.

Faccio un esempio: l’ultimo disco di Michele Bravi, La Geografia del buio, è un lavoro che può dirsi compiuto solo nel momento in cui una canzone si affianca all’altra, perché ogni brano è parte di un racconto più ampio e complesso. Le canzoni de La geografia del buio raccontano la comprensione, l’accettazione e, infine, l’attraversamento del dolore.

I dischi, in linea generale, sono concept album: sviluppano, attraverso un certo numero di canzoni, un tema, un sound e uno stile. Non sono playlist, ovvero raccolte di brani diversi, messi insieme senza una logica temporale e stilistica ben precisa. Ma delle playlist parlerò tra poco.

Torniamo agli album: la musica, dicevo, si ascolta online, si consuma in fretta e, sempre più spesso, non è parte di un progetto, quindi di un’idea. Semplicemente perché non c’è più il tempo di avere un’idea, quindi di sviluppare un progetto, né conviene farlo.

È molto più comodo e indolore realizzare un brano e gettarlo come un’esca nel mare inquinato della discografia odierna, che non ha più senso chiamare discografia, ma un insieme di fabbriche che investono su successi assicurati, che non prevedono dunque azzardi di alcun tipo.

La canzone, quindi, si immerge, pesca quel che può e torna indietro che è già consumata, deprezzata, sciupata.

Una canzone tira l’altra (e fare dischi diventa puro masochismo) 

Ricordate quando, fino a pochi anni fa, ogni artista pubblicava più singoli tratti dallo stesso album? Un esempio calzante è Tiziano Ferro: dal suo disco L’amore è una cosa semplice, datato 2011, sono stati estratti ben sette brani, il primo nell’ottobre 2011, l’ultimo nel febbraio 2013.

Adesso tutto questo sarebbe impensabile. Il motivo è semplice: oggi si usufruisce della musica come si fa con le serie tv, non esiste più l’attesa di una settimana tra un episodio e l’altro; tutte le puntate sono a disposizione del pubblico, che può scegliere di guardarle quando e come vuole.

Di conseguenza, non esiste più nemmeno il concetto di durata: prima, una serie tv di dieci episodi, trasmessa con la cadenza di una puntata a settimana, durava più di due mesi; adesso può consumarsi in una sola serata.

Lo stesso avviene per i dischi: un album, una volta pubblicato, è subito alla portata di tutti, si consuma in fretta, quindi il pubblico vuole immediatamente nuovi contenuti, proprio perché è abituato alla velocità. Da qui la scelta di molti artisti di pubblicare soltanto singoli (a discapito dell’album) oppure singoli inediti nonostante l’album sia appena uscito.

Un esempio perfetto, in questo caso, è rappresentato da Elodie: la cantante, lo scorso anno, in seguito alla partecipazione al Festival di Sanremo con Andromeda, ha pubblicato il singolo estivo Guaranà, che non era però contenuto nel disco This Is Elodie. Nonostante l’album fosse pieno di potenziali hit, si è preferito dare spazio a una canzone inedita

Perché? Semplice: un brano già edito, sebbene da appena due mesi, non avrebbe avuto lo stesso appeal e non avrebbe suscitato lo stesso hype, per usare un termine molto in voga negli ultimi anni.

La discografia oggi

Per spiegare questa scelta, solo apparentemente anomala, esistono comunque anche importanti logiche discografiche, legate alle certificazioni dei dischi (il famoso disco d’oro e di platino).

Un brano inedito è più appetibile e quindi è più facile che venga ascoltato. Non solo: nel caso in cui l’artista abbia appena pubblicato un disco, tale brano inedito viene comunque considerato parte del progetto.

Ad esempio, nel caso di Elodie, Guaranà fa parte di This Is Elodie, nonostante nella copia fisica del disco non ci sia. Il motivo è presto detto: in questo modo, gli ascolti del brano si sommano agli ascolti degli altri pezzi e tutto ciò è funzionale all’ottenimento delle certificazioni.

Per comprendere tutto questo, però, è necessario fare un passo indietro e parlare, appunto, di certificazioni.

Disco d’oro e di platino: il bluff delle certificazioni

Cosa sono le certificazioni Fimi (Federazione Industria Musicale Italiana)? Sono dei riconoscimenti che vengono dati agli artisti in base alle copie vendute dai loro dischi o dai loro singoli. In Italia, un disco viene certificato oro se raggiunge 25.000 copie e platino se tocca quota 50.000 copie.

I requisiti necessari per l’ottenimento dei due riconoscimenti è cambiato negli anni, proprio perché è drasticamente diminuito il numero dei dischi venduti.

Oggi, tuttavia, è molto più semplice raggiungere le certificazioni Fimi grazie, appunto, allo streaming: dal 2017, infatti, lo streaming digitale (in altre parole, l’ascolto dei brani su Spotify) incide sull’andamento dell’album in classifica e quindi sulle vendite del disco stesso.

In altri termini, quando un album raggiunge le famigerate 25.000 copie vendute, non si tratta di copie fisiche realmente acquistate dal pubblico, ma anche (e – spesso – soprattutto) di stream (ascolti) tramutati in copie.

Il fattore della conversione è il seguente: 1.300 ascolti corrispondono a una copia venduta. La somma totale degli ascolti accumulati da un disco in una settimana viene quindi divisa per 1300.

Tuttavia, ci sono delle precisazioni da fare: perché uno stream sia ritenuto valido, un brano deve essere ascoltato per più di 30 secondi; non solo, le canzoni i cui ascolti superano il 70% del totale accumulato dal disco non vengano prese in considerazione nel conteggio finale.

Perché per i singoli è più facile raggiungere le certificazioni?

Gli stream, dunque, favoriscono il successo di un disco. Tuttavia, ad avere vita più semplice grazie allo streaming sono i singoli brani. A questo punto, è necessario parlare delle playlist di Spotify, che nel tempo hanno soppiantato il potere delle radio.

Sia ben chiaro, il successo popolare di un brano è ancora legato inscindibilmente e imprescindibilmente alle radio, ma per le certificazioni il discorso è molto diverso. Un brano che passa in radio non è detto che venda molte copie, mentre un brano inserito in una playlist con molti follower può ottenere importanti riconoscimenti.

Se un brano fa parte di più playlist da centinaia di migliaia di ascoltatori, significa che quel pezzo verrà ascoltato più e più volte al giorno, quindi – inevitabilmente – venderà più copie.

È importante ricordare, a tale proposito, che le copie necessarie affinché un singolo diventi disco d’oro o di platino sono diverse da quelle degli album: perché un singolo sia oro, servono 35.000 copie vendute, perché sia platino bisogna toccare soglia 70.000.

Certo, il numero è nettamente più alto rispetto alle cifre necessarie per la certificazione degli album, ma è anche molto più semplice che una canzone accumuli ascolti

In definitiva…

Tornando al discorso iniziale: ha ancora senso fare dischi o è meglio pubblicare singoli brani, che abbiano tutte le caratteristiche per funzionare, e sperare che finiscano nella playlist giusta per arrivare a tanti ascoltatori (spesso distratti), che magari non sanno nemmeno di chi sia il pezzo che ascoltano? A voi l’ardua sentenza. Una cosa, però, è certa: viviamo un tempo strano, in cui anche la distrazione determina il successo di un artista.

a cura di
Basilio Petruzza

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