Come nasce la personalità del Joker: una valutazione psicologica di Arthur Fleck
E’ passata ormai qualche settimana dall’uscita nelle sale cinematografiche dell’attesissimo, immenso Joker di Todd Philips, un film, a quanto pare, incredibilmente abile nel mostrarci che cosa il cinema sia davvero capace di fare.
Dopotutto, l’arte ha da sempre due facce: da una parte è veicolo puramente edonistico ed auto celebrativo per l’artista, per il mittente, per il pubblico. Dall’altra è l’implacabile specchio critico della società da cui prende vita che, con metafore più o meno potenti, ci spinge a riflettere.
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Quest’ultimo è ovviamente il caso di Joker e non è affatto difficile giustificare il timore dilagante di emulazioni di carattere terroristico e violento. Tutto però sta nel capire, eventualmente, quali sono le radici del male e che cosa le ha nutrite.
Durante la proiezione, non si scollano nemmeno per un attimo gli occhi dallo schermo. Non è davvero possibile. Troppa l’angoscia, l’apprensione per il povero, fragile Arthur Fleck. Troppa la sensazione di impotenza ed intorpidimento, di fronte alla sua lenta discesa nella follia. Troppa la voglia di vederlo trionfare, troppa la soddisfazione nel scoprirlo vincitore. Ma noi lo sguardo l’abbiamo staccato, solo per un secondo e vi abbiamo visti, tutti, avere le stesse inequivocabili reazioni. Occhi sgranati. Bocca dischiusa. Mani sul viso, sullo stomaco, sul cuore.
Che lo ammettiamo o meno, tutti abbiamo empatizzato con Arthur, in un modo o nell’altro.
Ora però, chiamiamo il protagonista della storia come si dovrebbe. Com’è possibile ritrovarsi a tifare per il Joker? Non era proprio lui il cattivo per eccellenza? Non è proprio il suo, il volto che potremmo sovrapporre a quello di tanti killer, maniaci e terroristi? Per quale motivo questa volta la storia del Joker ci coinvolge a tal punto da sperare nella sua vittoria?
La risposta è semplice. Noi, sfilandogli di dosso la maschera del pazzo clown criminale, il povero Arthur l’abbiamo incontrato milioni di volte, nella nostra vita. L’abbiamo incontrato nel diverso, nell’emarginato, nello strambo e, nel profondo del nostro cuore, sappiamo benissimo che il più delle volte, davanti alla sua miseria ci siamo girati dall’altra parte. Il più delle volte, per lui siamo stati uno degli abitanti di quell’ammasso di omertà e reticenza che è Gotham City.
La nostra, quindi, è evidentemente una paura legittima, sì, ma nata nel celato senso di colpa, nell’ignoranza e in una tremenda, complice consapevolezza: questa società ci rende tutti, chi più e chi meno, un po’ Joker.
A questo punto entriamo nel vivo dell’analisi: che il peggio succeda oppure no, non sarà giunto il momento di prevenire, piuttosto che curare?
Nell’articolo precedente, abbiamo analizzato la problematica che incombono nella vorace società di oggi, ovvero quella dei disturbi mentali derivati da eventi traumatici, avvenuti nella delicatissima e cruciale fase infantile e adolescenziale dell’individuo.
Attraverso la lente d’ingrandimento del telefilm Mindhunter e dei suoi protagonisti, ovvero i primi criminal profilers dell’FBI, abbiamo indagato sul messaggio che il mondo dell’intrattenimento sta urlando a gran voce da tempo: non dobbiamo mai sottovalutare o nutrire le paure e i disagi di chi ci sta intorno, perchè potrebbero depositarsi sul fondo dell’inconscio come un seme e, piano piano, germogliare nel silenzio e nella dissociazione, dando vita a quelle radici contorte e profonde che sono i disturbi della psiche umana.
Per questo, ci siamo rivolti alla Dottoressa Chiara Fattori, Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, per aiutarci a tracciare una valutazione psicologica del nostro protagonista:
“Il Joker del registra Todd Phillips è una fotografia potente, nitida e lacerante dello scivolamento depressivo dell’individuo, posto ai margini della società contemporanea in uno stato di abbandono totale”, afferma la Fattori e in effetti, il caso di Arthur Fleck è solo l’ennesimo sconvolgente esempio di come la sofferenza possa deformare la personalità dell’individuo.
“È una pugnalata al sistema sanitario americano”, continua,“che non sa prendersi “cura” del disturbo psichico e che superficializza, non sapendo specializzare le terapie.”
Un’infanzia macchiata di ripetute violenze, una madre tutt’altro che capace di garantire al figlio stabilità emotiva, una crescente sindrome dell’abbandono da parte di un padre mai esistito, una situazione economica indigente, la mancanza di un rifugio, materiale e sentimentale, sicuro e rassicurante. E’ a causa di questi tremendi ingredienti che, insieme ad una base di forte emotività e fragilità , avverrà il concepimento del Joker nella mente di Arthur.
Ma incrinare la personalità non significa per forza romperla per sempre. Con pertinenti terapie di recupero e, non sottovalutiamolo mai, con adeguate e comprensive attenzioni da parte della società, un individuo può arginare le conseguenze traumatologiche e, addirittura, può renderle parte di un’indistruttibile corazza a prova di vita.
“Arthur non è cattivo ma reagisce in maniera speculare a ciò che ottiene dagli altri.”
Ed è qui che vediamo la differenza sostanziale tra villain ed eroe, perchè Batman non è di certo un personaggio retto e senza ombre, ma la sua vita ha preso decisamente una piega diversa, rispetto alla sua antitesi.
Arthur, infatti, non ha dalla sua un maggiordomo amorevole, un conto in banca inesauribile e la stima di un’intera società, Arthur vive in una Gotham sulfurea e claustrofobica che lo cataloga come la spazzatura abbandonata ai bordi della strada, spazzatura che nessuno si prende la briga nemmeno di buttare via. Danza Arthur, una danza macabra tanto è scheletrico, leggero, che quasi quasi prende il volo. Ride Arthur, ride incontrollatamente, rantolando, in una città dove non c’è davvero niente da ridere. E questo fa paura. Il suo carattere sensibile e le sue problematiche mentali già fin troppo evidenti lo rendono drammaticamente emarginato da tutti, impedendogli di trovare conforto nelle amicizie, nei rapporti lavorativi ed affettivi. L’unica costante è la madre, figura tutt’altro che positiva, una donna con gravi problematiche mentali che spinge Arthur, consapevole di questo, a distaccarsi ulteriormente dalla realtà. In questo mondo ostile, nutrendosi di dolore e tormento, avviene la gestazione del Joker nella mente di Arthur.
La dottoressa Fattori ci fornisce in merito un’interessante inquadramento diagnostico:
“Il paziente Arthur Fleck, oltre ad un chiaro disturbo psicotico fatto di deliri e stati allucinatori, a seguito di un’infanzia fatta di abusi e maltrattamenti, manifesta un disturbo di relazione che viene identificato come disturbo istrionico di personalità”
Il disturbo istrionico di personalità è una malattia in cui il soggetto sviluppa:
- Disagio nei contesti in cui il soggetto non è al centro dell’attenzione
- Interazione con il prossimo caratterizzata da comportamenti seduttivi e/o provocanti
- Emotività esageratamente inappropriata, instabile e superficiale
- Uso dell’aspetto fisico come mezzo per attirare l’attenzione su di se
- Eloquio di tipo impressionistico, vago e privo di dettagli
- Alta suggestionabilità (essere facilmente influenzabili dagli altri e dalle circostanze)
- Tendenza a considerare le relazioni più intime di quanto non siano realmente
Questi sintomi, inoltre, si manifestano già nella prima età adulta.
“Riconosciamo questo aspetto in Arthur perchè non riesce a stabilire relazioni e ogni tentativo è goffo e fallimentare, come ogni forma d’identificazione con modelli positivi di comportamento”.
Arthur, infatti, non ha un mentore, una figura maschile nel quale potersi identificare, da poter utilizzare come personale modello sociale e psicologico.
“L’istrionismo che il personaggio manifesta nel film è un puro atto imitativo, tipico di chi è alla ricerca di modelli con cui identificarsi. Non trovandone, di conseguenza desidera continue attenzioni. La personalità di Arthur è spaccata, frantumata e non sta insieme, come uno specchio rotto. Nel tentativo di riassemblare i pezzi, il protagonista troverà il modo per manifestare la sua vera essenza. Quando avviene questa trasformazione in termini nuovi? E in quali modalità? A voi la risposta”.
L’esempio dello specchio in frantumi fornitoci dalla dottoressa Fattori è assolutamente perfetto. Fleck trascorre la vita tentando inconsciamente di raccogliere i cocci di una personalità distrutta. Molti frammenti, sfortunatamente, sono andati perduti, i rimanenti non sono sufficienti per ricostruire il proprio Io.
Per questo, Arthur cerca nel confronto e nell’imitazione di terzi i frammenti mancanti, prendendo in prestito i sogni e le aspirazioni di chi lo circonda. La tv, in questo senso, gioca un ruolo fondamentale suggerendogli, tramite l’ammirazione per i comici, soprattutto per Murray Franklin (Robert De Niro), che forse far ridere la gente è la chiave che darà senso alla sua esistenza. Questa convinzione è ulteriormente rafforzata da una madre troppo accondiscendente.
Per essere pragmatici, Arthur ha tanta passione ma davvero poco talento. Si rifugia eccessivamente in una tenera e personale illusione in cui, nell’intimità casalinga, immagina di avere successo e stima da parte della comunità. Prepara accuratamente il suo spettacolo, ricalcando con precisione l’entrata ad effetto di quello, la battuta sagace dell’altro, certo che, così facendo, riuscirà a conquistare il prossimo.
Poi il dramma.
Le figure di riferimento di Fleck crollano, tutte insieme. Scopre le menzogne deliranti della madre totalmente pazza e, di conseguenza, che la figura paterna, finalmente ritrovata e identificata come Thomas Wayne, non era altro che frutto della follia materna. In più, Franklin lo denigra aspramente davanti al mondo intero, mandando in onda il filmato amatoriale del numero comico che, guarda un po’, era stato preparato per ricalcare le sue orme.
In un colpo solo, Arthur perde la madre, il padre ed il mentore e, privato del focus, punta il suo sguardo altrove, su una Gotham che usa la sua maschera da pagliaccio come simbolo, per ribellarsi al velenoso ed insostenibile sistema.
Ed è in quel momento che la mente di Arthur partorisce il Joker.
Eccolo lì, il suo vero io. Finalmente non c’è più bisogno di imitare nessuno, di cercare in qualcun altro una figura di riferimento, perchè è lui ad essere un potente riferimento. Supportato dalle sue nuove consapevolezze, Arthur da alla luce il Joker, gli da un nome, un aspetto, un carattere, una sua entrata in scena, una sua voce, nuova, risoluta, del tutto priva di impaccio o smarrimento. La sua terrificante ed incontrollabile risata è sparita.
Ecco perchè Arthur, ospite del talk show di Franklin, è del tutto diverso da come l’abbiamo conosciuto durante la visione della pellicola. Ecco perchè risulta affascinante, carismatico, convincente. Perchè siamo finalmente davanti al Joker, metafora allegorica del caos, in un mondo pieno di regole che non funzionano.
Forse, questa volta, è Joker l'(anti)eroe che Gotham merita e di cui ha più bisogno.
Si ringrazia la Dott.ssa Chiara Fattori. Di seguito, contatti e sito internet:
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