Da Mindhunter a It il messaggio è chiaro: mai sottovalutare le paure dei bambini

Da Mindhunter a It il messaggio è chiaro: mai sottovalutare le paure dei bambini
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Il primo approccio con la serie tv statunitense Mindhunter, una produzione originale Netflix uscita nel 2017 e diretta da David Fincher (Seven, Fight Club, Zodiac), suscitò indiscutibilmente scetticismo e diffidenza. Difatti, Mindhunter è rimasto nella lista di molti clienti Netflix per mesi, in attesa che gli si desse fiducia. Nessuno sapeva cosa aspettarsi da questa prima stagione, nata così, in sordina, caratterizzata da un’eleganza stilistica tale da risultare accattivante e fruibile da un pubblico vasto ed eterogeneo. Sta di fatto che, grazie al considerevole potere del passaparola, l’audience televisiva ha adorato la prima stagione al punto che, all’uscita della seconda, tutti ci siamo immediatamente precipitati sui nostri divani per scoprire i risvolti di una trama che, inevitabilmente, era riuscita ad ingolosirci.

Una serie tv che sfama l’interesse umano per le pulsioni e le perversioni che caratterizzano, volente o nolente, la nostra specie, non è di certo una novità. Ma se accantoniamo il mero intrattenimento e ci immergiamo completamente in ciò che stiamo guardando, forse, sarebbe facile accorgersi che si sta facendo il bagno in un bel mare di dati di fatto.

Perché la vera forza del fortunato prodotto di Fincher, rispetto a pilastri del genere serial killer come Criminal Minds, Dexter e (almeno nella sua prima stagione) True Detective è, senza dubbio, il fatto che si tratti di un’incensurata storia vera, la nostra storia vera. In questo caso la mente non può appigliarsi al fattore finzione. Mindhunter ci pone davanti al fatto compiuto, documentato ed esaminato. Non possiamo fare altro che accettare la mente umana per quella che è, ovvero qualcosa di estremamente e angosciosamente labile.

Il protagonista, Holden Ford, altri non è che l’alter ego del realmente esistito John Douglas, uno dei primi criminal profiler dell’FBI. Interpretato da Jonathan Groff come un moderno ed istrionico Sherlock Holmes, criticato da tutto il bureau per i suoi metodi tutt’altro che convenzionali, Ford è il nostro eteroclito autista in questo viaggio nella psiche umana, un viaggio a bordo di un mezzo di trasporto nuovo di pacca: la profilazione criminale.

Nonostante la serie sia ambientata nei caleidoscopici anni 70, non è di certo famosa per le sue tinte sgargianti. La fotografia è implacabile, assolutamente claustrofobica, meravigliosamente tetra. Non c’è ossigeno nelle inquadrature, non c’è colore, solo la ricerca spasmodica del lato oscuro. Il tutto immerso con innegabile maestria in una colonna sonora evocativa, straziante, dissonante, che diventa insopportabile di proposito, tanto da farvi sudare le mani. Per non parlare della scelta dei brani presi in prestito direttamente dal 1970, utili a ricreare storicamente l’ambientazione prescelta, certo, ma anche a consegnare alle immagini ulteriori significati.

Nella seconda stagione ci scolliamo notevolmente dalla vita privata di Ford che, creando non poco scalpore, aveva svelato una certa affinità con i serial killer da lui presi in esame, presentandoceli non tanto come i villains della storia ma piuttosto come vittime, a loro volta, di un passato violento. Sin da piccoli ci abituano ad un asettico “o è tutto bianco o è tutto nero”, come nelle fiabe, dove il buono ed il cattivo sono due entità completamente opposte. Crescendo, sappiamo troppo bene quante sfumature abitino nel mezzo e di come il confine tra bene e male sia in realtà tanto effimero quanto nebuloso. Determinare l’eroe ed il cattivo di una storia non è facile, perché è tutta una questione di punti di vista.

Il serial killer si sente sempre, in qualche modo, eroe e nel perpetrare le sue mostruose pratiche egli vede il compimento della sua personale realizzazione come essere umano, vittima il più delle volte di quella che gli psicologi chiamano ferita narcisistica, inferta in quello spazio in cui, nell’infanzia, si impara che cos’è l’amore.

In caso qualcosa vada storto, si cerca in tutti i modi di ritrovare quello spazio ma, se manca l’insegnante, il mentore, come possiamo capire da soli quali metodi siano giusti o sbagliati nella ricerca dell’amore, inteso in ogni sua forma? Di conseguenza, non sempre sono ragioni razionali e “superficiali” come la vendetta a guidare volontà cosiddette malvage, perché nella tana del Bianconiglio, in un mondo al contrario, uccidere può diventare dimostrazione d’amore assoluto.

Non a caso, il più delle volte, i serial killer hanno grandi manie di protagonismo, sono superuomini che, cercando affannosamente attenzione, sviluppano rapporti di simbiosi a senso unico con le autorità. Si tratta di un atteggiamento estremamente infantile, che ha la sua origine nei rapporti del tutto inappropriati che gli individui hanno sviluppato con le proprie figure di riferimento.

Per analizzare questa discrepanza, la lente d’ingrandimento della narrazione di Mindhunter si restringe all’inconsueto rapporto che il coprotagonista, l’agente dell’FBI Bill Tench, ha con il figlio adottivo. Compilando i profili dei criminali più efferati, Tench si era reso conto da tempo che a causare gran parte delle devianze sono i traumi infantili. Ma cosa capita quando, guardando tuo figlio, certe affinità con i fascicoli dei serial killer più feroci d’America non possono più essere ignorate?
In effetti, le due stagioni attualmente disponibili non fanno luce sul passato del piccolo, così taciturno e dissociato anche con i teneri genitori adottivi. Nel corso delle puntate si sospetta più volte che, nei suoi primi anni di vita, sia accaduto qualcosa che potrebbe averlo traumatizzato in modo permanente, tanto da renderlo complice di atti di violenza inusuali, inquietantemente incomprensibili data la sua giovane età. Potrebbe essere un trauma il problema, oppure il fatto che per la famiglia Tench, come nella vita reale, l’omertà macchi l’intimità casalinga, lasciando spazio all’ormai inflazionatissima giustificazione: “sono solo bambini”.

Sì, sono solo bambini. Ma quei bambini hanno il diritto di essere tutelati. Quei bambini, se lasciati soli, sono totalmente indifesi davanti al mostro della paura, che per loro può scaturire dalla cosa più piccola.

E quei bambini, ad un certo punto, crescono.

Rimandando ad un recente capolavoro di M. Night Shyamalan, Split, che ha come protagonista un prodigioso James McAvoy, affrontiamo la delicata tematica de “il dolore rende perfetti, il dolore eleva, è il dolore che rende supereroi…o villain”.

Potrebbe essere una teoria interessante, visto e considerato che sono proprio le esperienze al limite a formare il nostro carattere, preparandoci ad affrontare poi tutte le sfide che la vita avrà in serbo per noi.

Non sempre rodaggi troppo poderosi, tuttavia, incontrano un individuo capace di attutire e metabolizzare il colpo. Una personalità troppo docile o sensibile potrebbe venirne fuori distrutta, deformata, crepata per sempre. E non sempre le crepe vengono impreziosite con oro zecchino, come succede per coloro che diventano i coraggiosi paladini della storia. Spesso il vaso rimane incrinato, fino a che non si rompe in mille pezzettini affilati che, inevitabilmente, finiranno per ferire qualcuno.

Ma, laddove esiste il danno, non è detto che con le dovute attenzioni non si possa rimediare. Impensabile come, ancora oggi, sia così complicato catalogare i disturbi mentali come malattie reali, da trattare sin dal manifestarsi dei primi sintomi, esattamente come si farebbe con il diabete o con una semplice influenza. L’attenzione a quello che accade ai nostri figli è la chiave per crescere individui sereni, equilibrati, pronti a gestire lo stress della vita frenetica che caratterizza il nefasto e sterile periodo storico in cui viviamo. Se in famiglia e negli affetti troveremo terreno fertile per affondare profonde e sicure radici, nessuna tempesta esterna potrà spezzarci.

Parlando di traumi infantili non possiamo non pensare al padre della psicanalisi, il caro vecchio Sigmund Freud che, sebbene sia stato più volte criticato per la sua pretenziosa personalità, individuò le origini dei bug mentali nella fase più delicata della vita, ovvero l’infanzia. Non solo, la fase edipica è fondamentale per comprendere le dinamiche del relazionarsi con sé stessi e con gli altri, attraverso il rapporto che si sviluppa con le due figure più vicine a noi, ovvero il padre e la madre, o chi per loro ne fa le veci.

Il 2017 è stato teatro del fenomeno 13 Reasons Why, altra serie tv statunitense che si approccia non tanto al mondo infantile, quanto a quello adolescenziale, trattando temi spinosi come il bullismo, le violenze sessuali e psicologiche, fino al suicidio, drammatico epilogo della giovane vita della protagonista Hannah Baker. Senza soffermarci troppo sulla qualità dell’opera in sé, vale la pena analizzare il momento in cui il senso di manchevolezza ed odio nei propri confronti non spinge a ferire gli altri, ma a ferire noi stessi, a preferire la morte alla vita. Il caso Baker è perfetto, poiché guardando la serie si arriva a pensare che, effettivamente, il suicidio possa essere una reazione assolutamente esagerata a ciò che succede alla ragazza. La lezione che vuole impartirci 13 Reasons Why è semplice: non siamo tutti uguali. Quello che ferisce superficialmente l’uno, può distruggere l’altro e per Hannah, probabilmente, piccole problematiche, risolvibili semplicemente con il dialogo, sono diventate insostenibili, tanto da desiderare di farla finita. La paura è un mostro deforme, è un’ombra intangibile e pesante che si siede sulle spalle della vittima designata. Senza l’aiuto giusto, non sempre c’è una via di fuga.

È fondamentale proteggere i nostri figli e serve soprattutto insegnargli il rispetto e la gentilezza nei confronti del prossimo, così da impedirgli di farsi creatori di traumi a loro volta. Così da insegnare loro che l’amicizia, spesso, è una luce in luoghi oscuri, quando ogni altra luce si spegne.

Sono proprio queste le parole che, ne “La Compagnia dell’Anello”, Dama Galadriel adopera per guidare Frodo, l’improbabile protagonista de “Il Signore degli Anelli”, nella sua avventurosa campagna contro il Male.

Introduciamo così, citando il grande classico di Tolkien, l’importante lezione che regalano i cosiddetti “viaggi di formazione”, ovvero quelle spaventose avventure che creano indissolubili amicizie, proprio perchè una caverna buia o un mostro a tre teste potrebbero sembrare impossibili da affrontare da soli ma, con la compagnia giusta tutto può trasformarsi in un’incredibile avventura.

Questo è il caso del campione di Netflix, Stranger Things, influenzato da pilastri della letteratura e cinematografia di stampo vintage come il potentissimo capolavoro di Stephen King, It, che non troppo tempo fa ha beneficiato dell’uscita del secondo ed ultimo capitolo del recente, brillante remake. Se parliamo di quello che non dobbiamo assolutamente sottovalutare riguardo alle giovani generazioni, allora le tematiche di questo romanzo sono dispense imprescindibili. La ormai evidente chiave di lettura del romanzo di King è solo una: Pennywise il clown può braccarci stretto, ma non è affatto la cosa peggiore che possa capitarci.

Giocando con gli archetipi, It è una ì favola moderna dove King, quasi come stendesse un mazzo di carte sul tavolo, ci indottrina sulle deleterie violenze, di ogni forma e genere, che possono essere inferte ad un ragazzino.

Per la maggior parte dei casi, queste violenze avvengono per mano di genitori e compagni di classe terribili o semplicemente ottusi, e da questo scaturiscono le paure, o meglio, le fobie caratteristiche di ogni protagonista, che verranno utilizzate dall’immondo pagliaccio come gustoso nutrimento. Mettiamola così: It rappresenta la massa informe del senso di inadeguatezza e disillusione che potrebbe soggiogarci per sempre, se non fosse per l’amore e la forza dell’amicizia.

Sta di fatto che l’unica cosa che impedisce ai nostri losers di finire come il loro coetaneo, il bullo Butch Bowers, ovvero in un tripudio di follia e disordine mentale, è lo speciale rapporto di amicizia che si instaura tra di loro, un’amicizia positiva, pronta e aperta alla comprensione, al dialogo, all’amore disinteressato.

Perchè non c’è nulla di più orribile del sentirsi soli e spacciati, in un mondo molto più spaventoso di un clown ballerino.

Per ulteriori approfondimenti sulla profilazione criminale e sui disturbi della personalità, vi consigliamo di consultare i seguenti link:

The National Child Traumatic Stress Network
Polyvagal Theory
Centro Psicanalisi Romano

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Staff

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