Frances Farmer-Alda Merini: quando tutto chiede salvezza…e nessuno risponde
Dalle note di Kurt Cobain alle poesie di una donna con tanti “segni” nell’anima che ha lasciato il segno “per le rime”. La storia dell’attrice Frances Farmer, una delle tante che rimangono inascoltate, di una sensibilità talmente profonda che grida per uscire fuori. Trasformandosi in dolore sordido, torture inaudite, energie inespresse o solo incomprese. Infine in arte. Ed esempio, sul quale iniziare, per davvero, a riflettere.
Domenica mattina, e io già sveglia praticamente all’alba. Sarà colpa del ritorno all’ora solare, che non so perché su di me ha fatto l’effetto contrario: non un’ora in più di sonno, ma nuovi spunti per un’ennesima alzataccia. Sarà che non mi trovo a casa mia, ma da un’amica, e i viaggi hanno per me sempre il retrogusto, affatto amaro e spiacevole, di provocare l’innesco di un cambio di prospettiva.
Qui, nella sala di Raffaella, tutta dischi in vinile, CD modernissimi e libri vissuti e sistemati ad arte sulle quattro pareti, le mie mani curiose (e un po’ maldestre) hanno toccato qualcosa di troppo ed è partita una musica. Chitarrosa e troppo audace per l’ora. Ma non sono riuscita a fermarla, troppo presa ad ascoltare parole che mi colpiscono dritte come lame…
Potenza della rete e dei motori di ricerca…
Ticchetto sulla tastiera del mio inseparabile PC ed eccomi catapultata nella storia di una attrice di Hollywood ai più sconosciuta: Frances Farmer. Famosa da trentenne, non solo grazie ad una bellezza davvero senza tempo. Morta ad appena 56 anni per un cancro che non metterà a tacere per sempre sia le tante illazioni sulle sue vicende sia le vicissitudini, alcune davvero ingiuste e dolorose, in cui era rimasta coinvolta.
Raffaella entra nella stanza, e penso che stia per dirmi di spegnere quella “cagnara” (o farlo direttamente lei, visto che non saprei proprio come fare). Invece si fa un caffè che riempie la casa del sapore di giorno fatto e pronto da essere vissuto. E mi mette sul tavolino un libro dalla copertina anonima appena sfilato da una libreria. Sembra un panino imbottito, per tutti i fogli piegati e pieni di appunti inseriti dentro. È la sua tesi di laurea su crimini e psicofarmaci.
…e di una lettura veloce, parente alla vicina della sana curiosità
Riassumere la “authorized biography” di Frances Farmer mi sembra facile, tanto ricorda altre storie di cui ho già sentito parlare. Ultima nata, il 19.09.1913 a Seattle, da papà Ernest, avvocato, e mamma Cora Lillian, ha tre fratelli, Wesley, Edith May e la sorellastra Rita. A 4 anni i suoi si separano, e lei inizia a spostarsi di città in città al seguito della madre per motivi di lavoro. Questo girovagare influirà su tutta la sua vita. Avrà modo di conoscere davvero il padre solo ai tempi della scuola. Lo testimonierà in anticipo in un articolo che attirerà su di lei strali e sospetto.
Frances l’atea già si è fatta notare a scuola. Appare indipendente, non veste alla moda, a volte indossa abiti considerati maschili, o forse solo non appariscenti, anonimi. E per quanto sia coinvolta in attività sportive e nella redazione del giornale, per chi la vede dall’esterno (ma forse anche secondo lei), conduce una vita all’insegna della solitudine. Della difficoltà di essere accettata e riconosciuta. E non additata.
La pulce nell’orecchio
Si è fatta mattina inoltrata, sono ancora in tenuta da notte, ma di quella che usavo per i viaggi prima della pandemia: una tuta leggera e stilosa con la quale però non andrei mai in giro. La mia ospite è uscita per fare una passeggiata, lasciandomi assorta nella mia ricerca. Apro e chiudo pagine di internet. Trovo libri e articoli che hanno parlato di lei. E alla fine vado a sbattere contro il biopic film che vede una Jessica Lange in un’interpretazione straordinaria.
E mi torna in mente quella strana sensazione che ho avuto con l’ultimo film su Marilyn Monroe, sul quale abbiamo fatto una diretta Twitch il 29 settembre scorso. Che la vita di quella donna, complessa e affascinante, sia stata compressa e artefatta dentro un luogo comune, una “versione ufficiale” voluta quasi a forza. Un’unica parola: la Bionda. Possibile che sia accaduto lo stesso con Frances Farmer: la pazza?
C’è qualcosa che non torna
Raffaella è rientrata a casa e mi chiede che cosa non vada: ho la faccia assorta e deve avermi detto qualcosa a cui non ho prestato molta attenzione. Qualcosa che non va in effetti c’è. Alcune date della vita di Frances non corrispondono, alcune fonti non sono dettagliate. Su molte pagine sono scritte pedissequamente le stesse cose (un copia e incolla che non ha tralasciato nemmeno gli errori di battitura). E alcuni link neanche troppo datati, ad un sito che porta il suo nome, sembrano non funzionare più.
Ho abbastanza esperienza nel fare ricerche da sapere che in questi casi non resta che andare avanti. E andare a fondo, il più possibile. Qualcosa dovrà venire fuori. Intanto faccio il punto della situazione su quello che ho finora trovato. Frances Farmer è accreditata di aver partecipato a 18 film, 3 commedie di Broadway, 30 programmi radiofonici, 7 produzioni teatrali. Il tutto in soli 6 anni. Poi la caduta agli inferi, nel 1942, per guida senza patente in stato di alterazione (ebbrezza, rabbia, ira?), a cui seguiranno, prigione e ricoveri in ospedali psichiatrici, per 5 anni, o 6, o 7… elettroshock… lobotomia…
Il dito nell’occhio
Decido per un po’ di lasciar perdere il PC e quella rete che mi fa sentire confusa in una nebbia che non riesco a dipanare. È l’ora di leggere il libro-panino che mi ha consegnato Raffaella, uno studio sul rapporto tra crimini e psicofarmaci. Con una parte introduttiva sia sulla storia della visione delle malattie della mente sia sull’utilizzo delle cure. I greci e romani parlavano di malattia dell’anima, attribuendo alla follia anche aspetti collegati alla creatività e personalità. Ma man mano nella storia, e fino quasi ai giorni nostri, chi soffre nell’anima viene visto come materia di scarto, da eliminare.
E le “cure” praticate partono dalle stultifera navis, manicomi galleggianti per tenere i pazzi lontano dalla civiltà considerata normale, per passare a forme di “contenzione” che sono sevizie e trattamenti disumanizzanti. Come docce gelate e camicie di forza. Ferri roventi e chiusure in armadi. Gocce di ceralacca fuse fatte colare sulla pelle e digiuni forzati. Per non parlare della “goccia cinese”: la pratica di lasciar cadere sulla teste gocce d’acqua ad intervalli regolari e senza sosta. Praticamente tutto l’armamentario degli strumenti di tortura praticati dai peggiori aguzzini.
Lobotomia delle coscienze ed elettroshock del senso di umanità
L’aspetto più sconcertante è che nella metà del secolo scorso ed oltre la comunità scientifica del campo abbia sostenuto teorie eugenetiche e di selezione della “specie”. Come quelle alla base dei campi di concentramento nazisti. Il ricorso ai manicomi per motivi politici e di regime, come in Unione Sovietica. Le teorie segregazioniste alla base della supremazia raziale negli Stati Uniti (con segni evidenti fino ai giorni nostri, Black live matters per citare l’ultimo). E dell’apartheid in Sudafrica, formalmente abolito “solo” nel 1991.
Questa scienza “moderna” che si autoproclama autonoma e superiore alla stessa legge e ai diritti, perché i diritti e le regole esistono solo per le persone normali e che si conformano al sentire comune, con l’utilizzo dei suoi strumenti più barbari, controversi ed inefficaci e dannosi, ha infiltrato e lobotomizzato le coscienze dei tempi e sottoposto ad un elettroshock perverso e continuo il senso di umanità e presa in carico di un paziente che ha un dolore nell’anima o nella psiche.
Lo shock
Potrei fare una facile battuta per stemperare l’atmosfera, in casa e nella mia testa: sono elettroshockizzata. Per quanto sui “si dice” e i “si pensa” dei patimenti dell’anima e della psiche abbia avuto da tempo da riflettere e ragionare, ero, a quanto pare, ingenuamente convinta che nell’ambiente c.d. scientifico e accademico le cose fossero un bel po’ più progredite. Che certe situazioni fossero frutto di scarsa conoscenza della “gente” e di quel fenomeno che porta, a volte istintivamente, a prendere le distanze da ciò che non capiamo e ci fa paura.
E sul quale qualcuno che ne sa più di noi dovrebbe fare chiarezza. Dare informazioni e rimedi. Prendersi cura. Invece…
Per fortuna è quasi l’ora di pranzo. Raffaella mi attira in cucina. E tra un soffritto e la preparazione dell’insalata, mi parla del libro di Daniele Mencarelli che sta leggendo. “Tutto chiede salvezza”. Neanche fossi una millenial, le dico “Ma ci hanno fatto una serie. Ti va di vederla?”.
S’è fatta una certa
È ora di cena quando finisco di vederlo, con compendio di occhi lucidi, sensi un po’ turbati e vuoto nello stomaco. Ho bisogno anche di un po’ di aria e di sgranchirmi, gambe e braccia, e far distrarre pupille ormai a forma di teleschermo. Se in casa ci fosse un cane, mi offrirei di portarlo a fare un giretto. Ma poco importa, ho bisogno di uscire. Con la tesi sotto il braccio e la mia tutina sbriluccicosa, sono già per strada.
Avete presente quando uno cerca di pensare ad altro, ma la mente ritorna sempre dove stava andando? “La lingua batte dove il dente duole”, direbbe qualcuno. Ma quello che io so è che la mia ricerca è appena iniziata. E sotto un lampione su una panchina mi metto a scorrere di nuovo quel racconto inaspettato degli orrori. Che contiene la testimonianza di una poetessa che in molti dovrebbero iniziare a leggere. Tanto profonde e leggere sanno essere le sue parole: Alda Merini.
Il racconto di Alda Merini del manicomio e degli elettroshock
Una mamma e poeta forse un po’ stanca ed esaurita, parla con il marito di come si senta, ma non viene compresa.
“Morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza,
non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio. Fu lì che credetti di impazzire“.
“In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento.
Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano”.Alda Merini, dal diario di quei giorni
Dall’acronimo quasi innocuo TEC, la terapia elettro convulsivante consiste nell’indurre al paziente delle convulsioni attraverso il passaggio di una lieve corrente elettrica attraverso il cervello. È stata sviluppata e introdotta negli anni ’30 del secolo scorso dai neurologi Ugo Celletti e Lucio Bini. Sarà un loro allievo, di nome Crinoski, ad esportarne l’uso in paesi come Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e USA.
La panacea di tutti i mali
Cerletti, direttore della clinica di Neuropsichiatria di Roma, raccontò che l’idea della TEC gli venne osservando, in un macello, che i maiali venivano storditi prima di essere uccisi con delle scosse elettriche.
Dopo anni di studio sulle conseguenze neurologiche di ripetute crisi epilettiche effettuati su animali,
basati sulle teorie di Ladislas Meduna, secondo cui schizofrenia e epilessia erano disturbi antagonisti,
si studiarono per alcuni anni farmaci convulsivanti ed effetti del c.d. coma insulinico. Poi l’arrivo della TEC.
Agli albori la terapia veniva praticata senza alcun anestetico o miorilassante, con pazienti vigili soggetti a dolori lancinanti e potenziali fratture (es. denti, gambe, etc.). E veniva applicata largamente. Sui soggetti irascibili, per renderli mansueti (come gli animali nel macello); sui depressi, per aumentarne la reattività. Trascurando però, con buona pace del metodo scientifico, di effettuare serie sperimentazioni in doppio cieco con somministrazione di placebo. Ma soprattutto le “complicanze” più letali: l’arresto cardiaco del paziente o l’emorragia cerebrale.
Successivamente saranno introdotti dei correttivi, quali medicinali per sedare il paziente e scariche più lievi. Restava il fatto che anche il trattamento praticato con minor voltaggio possibile era più devastante di qualsiasi crisi epilettica naturale. E che negli anni successivi e fino ai giorni nostri non sia emersa nessuna evidenza chiara ed inequivocabile di efficacia della terapia.
Frances Farmer secondo la “versione ufficiale”
Come racconterà in una puntata dello show televisivo This is your life nel 1958, a dispetto del desiderio del padre di vederla avvocato, Frances Farmer si iscrive alla University of Washington di Seattle per frequentare il Corso di giornalismo. È in quegli anni che si avvicina alla recitazione, nel gruppo teatrale universitario, con ruoli da protagonista in “Elena di Troia” e “Zio Vania”.
E nell’Unione Sovietica di Cechov andrà in viaggio, quando il giornale comunista “The Voice of Action” della sua città indice un concorso basato sul numero di abbonamenti fatti sottoscrivere, andando porta a porta nelle case. Lei stravince e parte alla volta della visita del Teatro d’arte di Mosca. Apriti cielo. La giovane Farmer è una traditrice della patria: atea e pure comunista!
Dal sogno del palcoscenico al contratto con una major
Frances, di ritorno dall’URSS, ha le idee molto chiare, che nulla hanno a che vedere con la politica. La sua ambizione è calcare le scene. Ed è così che si trasferisce a New York. Sarà l’incontro con l’agente Shepard Raube a far virare la sua bussola.
Firma, a soli 22 anni, un contratto con la Paramount Pictures, con trasferimento nella città degli angeli e partecipazione al suo primo film, “Too many parents”. Poi il film drammatico “Border Flight” e il western con Bing Crosby “Rythm on the Range”. È con “Come and Get It” (titolo italiano “Ambizione”), in cui interpreta il doppio ruolo di Lotta Morgan e Lotta Bostrom, la vera svolta. Iniziato con il regista Howard Hawks, con cui l’attrice si trova bene e si confronta, il film viene concluso da William Wyler. Uscito nelle sale, Frances sarà acclamata come la nuova Garbo.
Dall’Olimpo del cinema del tempo agli inferi causati dalla sua sregolatezza
La sua vita privata entra in rotta di collisione con la sua carriera oramai esplosa. E, sempre secondo la versione ufficiale, complice la madre Cora che aveva in mente per lei tutta un’altra “esplosione”, Frances finisce internata in manicomio. Ci resterà per anni, ad espiare il suo essere donna, atea, anticonformista. Tra sevizie e torture, la più crudele una lobotomia che la riduce ad una specie di zombie.
Il tutto viene raccontato, e a noi finora fraudolentemente tramandato, in brani adatti alla costruzione di una martire moderna, in una commistione continua, e per questo indistinguibile, di hypes e vipes che corrono tra articoli, trasposizioni teatrali, pellicole (la citata Frances della Lange), canzoni…fino ad un libro dal nome che è tutto un (oscuro) programma: Shadowland uscito dalla penna di William Arnold.
Dalla Figlia senza senno…
La pietra miliare della nascita della leggenda sembra potersi collegare a “La figlia della furia”, capitolo contenuto nel libro di Kenneth Anger “Hollywood Babilonia”. Uscito in Francia nel lontano 1959, approderà negli States solo nel 1965, con con poche difficoltà, visto il materiale scabroso e molto privato che promette su personaggi e icone contemporanei all’epoca. Si dovrà attendere quindi il 1975 perché la pubblicazione acquisti l’aura di opera di culto (un po’ pagano) sulle tante miserie e le poche nobiltà della mecca del cinema.
Per gli appassionati di cinema, ma anche per quegli osservatori più acuti che ormai da tempo hanno compreso come la originalità non sia particolarmente praticata, il titolo prende spunto dalla pellicola del 1942, “Il figlio della furia”, ambientato in Inghilterra nel Settecento, in cui Frances Farmer recita insieme a George Sanders, Gene Tierney, Tyrone Power e all’attore, allora bambino, Roddie McDowall.
….alla Santa Frances di Hollywood….
Salterà fuori dalla penna della drammaturga canadese Sally Clark la versione tutta quinte ed assi polverose del palcoscenico dedicata alla Farmer. Dal titolo che lascia poco spazio al dubbio circa un’opera di beatificazione mediatica in atto: “Saint Frances of Hollywood”.
E queste alcune delle nitide parole dell’autrice che spiegano efficacemente il suo pensiero.
Credo che Frances Farmer sia una santa non riconosciuta del ventesimo secolo.
Sfidò le autorità del tempo. Anche lei fu torturata, ma non ritrattò mai.Sally Clark
…e finalmente l’approdo agognato alla “terra delle ombre”
È tutto collegato alle vicende strettamente legali del libro Shadowland il mio personale approdo ad una prima parvenza di “vero vero” (come direbbero Tom Hanks e Halle Berry nella meravigliosa pellicola “Cloud Atlas”). Il “buon” William Arnold si autoproclama biografo ufficiale della Farmer, strutturando la sua opera come un’inchiesta giornalistica. E l’espediente non passa inosservato alla Brooksfilm, casa produttrice della pellicola che immortala una Jessica Lange-Farmer trasfigurata.
Citati in giudizio dal giornalista, al quale non hanno fatto alcun contratto o riconosciuto alcun diritto d’autore, quelli della Brooks si difendono con l’argomento legale della sceneggiatura originale creata su documenti di pubblico dominio. E qui l’ammissione, su carta bollata, che diversi episodi nella vita dell’attrice, lobotomia inclusa, siano stati da lui “fictionalizzati”. Apriti cielo!
Quando si apre il cielo
Dopo la passeggiata salvifica, ed il rientro a casa, il mio portatile (e anche la mia testa) non si è fermata un solo istante, facendomi trascorrere l’intera notte a rintracciare scampoli di fiction, che avete appena letto, e una fonte, inaspettata e preziosa, un’altra tesi di laurea divenuta libro, della genesi di questa mistificazione che mi è apparsa al tempo stesso inutile ed oltraggiosa. Riservando a Frances Farmer, come a chissà quante altre anime confuse, una ulteriore ed infame tortura.
Ho aspettato senza dubbio il giorno per parlarne con la paziente Raffaella, che non avrà mai il cuore di dirmi che ospite più nottambula non ha mai avuto nella sua casa, da quando si ricordi. E che però, come me, ha colto nel segno. Come tutto quello che circonda i mali profondi dell’anima, quella che gli antichi chiamavano poeticamente, e con rispetto, follia, siano trattati, da sempre e per sempre, con cinismo e distacco, con malcelata superiorità e disprezzo, in troppi consessi, anche accademici, anche scientifici.
In un loop continuo dove tutti, anche noi che ci proclamiamo sani e “normali”, pretendiamo salvezza.
E da quella riflessione comune…
Ed è per tale ragione che, a vacanza alternativa e un po’ sui generis conclusa, è nato questo articolo.
Che mi ha coinvolta nella ricerca e nella lettura di centinaia di righe e pagine, non solo online, attraverso le quali restituire a Frances Farmer una storia più genuina. Partendo dal concetto delle cc.dd. biopics. Senza trascurare il tema, attuale e scivoloso, delle fake news.
Dall’abbreviazione dell’espressione anglosassone biographical motion picture, il biopic è un genere dai tratti caratteristici. Drammatizzazione di vita o episodi e periodi salienti di persone vere e realmente vissute. Ricerca o ricostruzione di verosimiglianze anche nell’aspetto, per attori, scenografie e costumi. Nomination prenotate agli Oscar, per attori protagonisti e antagonisti (Bohemian Rapsody nel 2019 e Elvis ne confermano l’attualità, oltre ogni ragionevole dubbio).
…alla fabbrica delle moderne e polarizzate bufale
Come hanno approfondito due studiosi di cinema, George F. Custen nel 1992 e Dennis P. Bingham nel 2010, le biografie dramatized da grande o piccolo schermo e per pubblico decisamente generalista, hanno, oltre alla banalità delle semplificazioni e dell’enfasi, un contenuto decisamente sessista.
Il primo ha concluso il suo studio mettendo in luce come attraverso tali opere si siano praticamente riscritte intere porzioni della storia. Per il secondo, il sesso del protagonista incide sul punto di vista: grandi imprese per gli uomini, vittimizzazione e piccole e grandi sofferenze personali per le donne.
E tale attività di mistificazione-banalizzazione, presente, va detto, in altri generi e in altri campi attigui al cinema, si è rivelata ancora più pervasiva, perché propagandata come fatti reali(stici) e storie di persone vere. Portando dalla situazione, comunque distorta ma rassicurante, in cui anche un orologio rotto (la bufala) due volte al giorno dice l’ora giusta, a quella, delle cc.dd. fake news, in cui la ripetizione, virale e acritica della bugia, si sovrappone, irrimediabilmente e per sempre, rimpiazzando la verità.
Frances, la storia “vera”
Devo dire grazie a quella nota stonata che ho sentito, leggendo quelle pagine web tutte uguali, frutto di quel copia-incolla con corredo di errori di battitura se non mi sono fermata alla versione ormai ufficializzata dal “paese delle ombre”. Dallo Shadowland di un William Arnold che si presenta come giornalista di inchiesta, ma infarcisce la storia di Frances Farmer di fatti ingigantiti o inventati di sana pianta. Di avvenimenti non supportati da fonti certe, attendibili e verificate.
Devo dire grazie anche al web dove nulla sparisce del tutto, e in cui ho rintracciato la copia di archivio di un sito-tributo non più online che si chiamava francesfarmer.com, da cui ho recuperato molto materiale genuino e originale. Ma la fortuna più grande la devo al libro, “Frances Farmer si vendicherà di Seattle. Indagine su un’icona tra fiction e verità“ di Dario Recla, e alla sua bibliografia.
La violenza dell’indifferenza e della retorica
Ed eccoci alla fine di questa ricerca, affascinante ed inusuale come la protagonista e la sua storia. Una ricerca con tanto “materiale” sul quale dover riflettere. Perché alle persone come lei succede troppo spesso, da tempo immemore e in tutti gli ambienti, anche quelli più insospettabili, di subire una ulteriore violenza, rispetto a quella riservata dalla vita, o dal destino.
Di essere inghiottiti nell’oblio di un’indifferenza, che nasce troppo spesso da sciocche paure e insulsa ignoranza. E che si potrebbe “curare” con maggiori attenzioni e sensibilità.
Di essere oggetto di una morbosa curiosità, in cui in troppi pretendono notizie, non importa se vere o verosimili, affamati quasi di rimestare nel torbido.
Di essere raccontati con frasi, discorsi e ragionamenti carichi di quella retorica che connatura spesso i discorsi di chi guarda alla vita degli altri dal pulpito fintamente buonista e tranquillo del proprio salotto.
Riflessione finale
Ecco uno sguardo di Frances Farmer, in un ritratto in bianco e nero di altri tempi. Sembra qualcosa di molto moderno. Ci fissa come a dirci di non fermarci mai alla superficie, alle “cose” retoriche ed un po’ distratte. Alla spesso stonata versione ufficiale.
Sembra racchiudere un’intensità ed una dolcezza che le cronache che la hanno riguardata ci hanno rubato. E trasmette quel senso di attenzione, sensibilità e richiesta di salvezza che dovrebbe far parte ogni giorno della nostra vita.
Quando navighiamo nel web alla ricerca del gossip pronto a diventar virale e quando ci facciamo infinocchiare dalla nuova leggenda metropolitana di cui possiamo, e volentieri, fare a meno.
Buon viaggio e buona salvezza!
a cura di
Silvia Morghen Di Domenico