“Fremont”, di solitudine e di grandi speranze – la recensione

“Fremont”, di solitudine e di grandi speranze – la recensione
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Distribuito qualche mese fa in poche sale italiane, Fremont è un film indipendente diretto dal regista iraniano Babak Jalali. Ora è disponibile in streaming, in esclusiva su Rai Play, e vale la pena recuperarlo.

Presentato in concorso al Roma Film Fest 2023, Fremont ha raggiunto il pubblico in sala quasi un anno dopo. Si tratta di un film piccolo piccolo ma molto profondo, scritto a quattro mani con Carolina Cavalli, regista di Amanda. Tra gli interpreti anche Jeremy Allen White.

Donya

Un tempo era traduttrice per l’esercito americano a Kabul. Adesso Donya è una giovane rifugiata che ha lasciato il suo Paese dopo il ritorno al potere dei talebani. Ora vive appunto a Fremont, una cittadina a poche miglia da San Francisco, che ospita la più grande comunità afghana degli Stati Uniti.

Qui Donya cerca di costruirsi una vita lontana da casa, tra il quartiere che occupa insieme ai tanti connazionali e la fabbrica di biscotti della fortuna in cui lavora. La sua è un’esistenza priva di grandi ambizioni, ma di gesti quotidiani perfettamente ordinati in una normalità che per lei è croce e delizia.

I luoghi che frequenta sono lo specchio di una vita piuttosto abitudinaria, scandita dalle confidenze con l’amica Joanna (Hilda Schmelling) e le sedute nello studio del dottor Anthony (Gregg Turkington), un bizzarro psichiatra a cui si rivolge per chiedere un rimedio per l’insonnia.

Tutto apparentemente immobile, tranne i pensieri di Donya.

Un conflitto tra passato e presente…

Nonostante il continuo richiamo alle vicende passate, non è difficile intuire, fin dai primi momenti del film, che Donya vive un conflitto interiore.

Le persone intorno a lei sono indubbiamente di conforto, condividono con la protagonista le stesse origini, la stessa cultura e tutto ciò che ne consegue. Fremont è il luogo che più assomiglia alla sua casa. Il lavoro rappresenta una certezza ma, anche se incapace di ammettere il contrario, Donya si sente sola.

“Non passo troppo tempo a pensare”.

“Perchè?”

“Troppo occupata con la vita sociale”.

Donya e il dottor Anthony in una scena del film.

I colloqui con il dottor Anthony diventano nel tempo l’occasione per raccontare la sua storia. Superato lo scetticismo iniziale, Donya si apre sempre di più al confronto e alla condivisione dei pensieri che maggiormente la tormentano.

Non rinnega le sue origini. Espone senza timore le sofferenze subite, ma la sua personale ricerca della libertà è costantemente accompagnata dai sensi di colpa per avere lasciato la sua famiglia in Afghanistan.

In terapia Donya comincia a considerare la sua condizione da una prospettiva differente, complice la singolare ossessione del dottor Anthony per Zanna Bianca, un personaggio che come lei ha subìto la separazione dalla madre e dal “branco”. Donya si riconosce in lui poiché, a Kabul, “non accettata dagli altri traduttori perchè donna”.

Per quanto insolita, è anche attraverso questa figura che Donya prende coscienza di sé e prova ad abbracciare finalmente la realtà che la circonda nel momento presente.

Decide allora di darsi una possibilità. Un giorno scrive il suo numero di telefono su un bigliettino che poi infila in un biscotto della fortuna. Chi troverà il suo messaggio?

…con uno sguardo al futuro

Non è il caso di rivelare il destinatario del bigliettino, ma possiamo dire con certezza che ciò che accade è del tutto inaspettato. La piccola rivoluzione interiore della protagonista è cominciata e Donya decide di affidare tutto al destino e al lungo viaggio di un biscotto della fortuna, il cui significato va amplificandosi.

Il messaggio scritto in genere al suo interno è piuttosto semplice, “né troppo allegro, né troppo triste”, mai troppo elaborato, né ovvio; le parole di Donya – Alla ricerca di un sogno” – invece sono la risposta al desiderio di affermarsi, di essere ascoltata, amata.

Così, insieme a Donya, anche noi rimaniamo in attesa, senza fare alcuna previsione ma con l’atteggiamento pacato di chi accoglie ciò che avviene, gli dà una sua forma e ci si accoccola nel modo più naturale.

Cast e considerazioni

Fremont è un film silenzioso, romantico, delicato, fatto di sguardi e poche parole. Le numerose inquadrature fisse e la fotografia in bianco e nero sottolineano questo aspetto, senza appesantire il racconto. 

“Sapevi che Cina e Afghanistan condividono una frontiera? Credo che le persone che condividono delle frontiere, condividono anche molte somiglianze. Noi condividiamo una frontiera quindi abbiamo delle somiglianze. Va bene sentirsi soli a volte. Sarebbe molto strano se le persone non si sentissero mai sole. Se non pensassero mai ad altre possibilità, ad altre persone”.

La messa in scena è volta a evidenziare una vita lenta in cui i momenti di riflessione prevalgono sui forti sconquassi emotivi. Le sensazioni e le insicurezze di Donya passano attraverso l’espressività di Anaita Wali Zada, che la interpreta in modo eccellente, dando spessore a tutte le sue sfumature.

Le musiche affascinanti di Mahmood Schricker (Radio Dreams, Through the breeze) accompagnano i movimenti dei personaggi e danno profondità ai momenti di sospensione, richiamando le origini di Donya.

Nel cast, prevalentemente sconosciuto e di provenienza asiatica, spicca Jeremy Allen White (The Bear, The Iron Claw, Shameless), nel ruolo forse più sottovalutato della sua carriera, ma molto significativo.

Daniel, un meccanico che Donya incontra lungo il tragitto in auto da Fremont a San Francisco, è come lei un’anima solitaria, che ha fatto dell’officina il suo piccolo regno ed è solito frequentare il diner poco lontano da lì. Non sappiamo se è alla ricerca di un sogno, ad ogni modo il personaggio di White fa sorridere e sperare in qualcosa di buono.

Fremont è un film intenso, poetico, intriso di realismo, in grado di rappresentare in modo efficace il senso di inquietudine che deriva dall’incapacità di trovare il proprio posto nel mondo, la propria vera casa, di sentirsi abbastanza e di saper fare sempre la cosa giusta.

L’opera di Jalali porta alla luce il conflitto interiore anche di una generazione che, indipendentemente dal vissuto precedente, è responsabile delle proprie scelte e del futuro che dipende da esse. E come Donya, desidera fermare, anche solo per un attimo, la propria lotta quotidiana, infinita, sfiancante, contro i giudizi e le pressioni esterne, e vivere la vita che pensa di meritare.

a cura di
Sofia Vanzetto

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