“Born in the U.S.A.”: storia della copertina dell’album più frainteso di Springsteen

“Born in the U.S.A.”: storia della copertina dell’album più frainteso di Springsteen
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Il 4 giugno 1984 usciva Born in the U.S.A., uno degli album più importanti, e fraintesi, della storia della Musica. Ma anche quello che consacrò definitivamente Bruce Springsteen come portavoce dell’America operaia.

Abbandonati i toni più cupi e oscuri di Nebraska, Springsteen pur avvicinandosi più al pop, con Born in the U.S.A., non lascia andare lo spirito antimilitarista che l’ha contraddistinto già in passato.

Born in the U.S.A. fu però anche un album frainteso, come dicevo, e ancora più spesso strumentalizzato.

La canzone

Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il titolo della canzone che diede il nome al disco, Born in the U.S.A. non parla di orgoglio patriottico. Anzi, la canzone, così come tutto l’album, è carica di rabbia e diventa per il Boss l’occasione di raccontare la generazione dei reduci del Vietnam, la loro difficoltà di trovare lavoro dopo il ritorno in patria e il dolore per le perdite in guerra.

Springsteen in Born in the U.S.A. riflette sulle conseguenze e gli strascichi del Vietnam: la canzone racconta delle umili origini del protagonista, di come venga mandato in guerra e del suo ritorno in patria. Il tutto pervaso da un sentimento generale di inutilità per gli sforzi compiuti dagli americani durante la guerra.

Essere “nato negli U.S.A.” non è, per il veterano protagonista della canzone, motivo di orgoglio. Lui, come tanti mandati a morire in Vietnam, ha fatto ritorno a casa e non ha più lavoro né sogni.

Springsteen e il Vietnam

Springsteen non andò mai in Vietnam. In diverse occasioni raccontò che, quando nel 1968 gli arrivò la lettera con la chiamata alla visita militare, iniziò a pensare ad una scusa per farsi riformare. Alla fine non ce ne fu bisogno: un trauma cerebrale di cui aveva sofferto l’anno precedente a causa di una brutta caduta in moto gli impedì di essere arruolato. Ma il pensiero degli amici morti in guerra, o dei tanti veterani tornati su una sedia a rotelle, lo portò a scrivere alcune delle canzoni di Nebraska prima, e successivamente di Born in the U.S.A..

Copertina Born in the U.S.A.
La copertina

Nella copertina di Born in the U.S.A. sono raccolti alcuni dei simboli americani. In foto si vede Springsteen di spalle, con addosso i blue jeans dai quali esce, da una tasca, un cappellino da baseball. Mentre sullo sfondo si vede la bandiera americana.

Probabilmente proprio la foto scattata da Annie Leibovitz, per quanto iconica, contribuì a creare i fraintendimenti e la mancata comprensione di alcuni degli aspetti più politici dell’album e della canzone stessa.

Chi si fermò a quella, senza fare attenzione alle parole, non poté fare a meno di identificare Born in the U.S.A. come il canto di chi orgogliosamente rivendica le proprie origini.

Le manipolazioni

Ronald Regan, durante la sua campagna elettorale, espresse il desiderio di utilizzare la canzone per i comizi, ma Springsteen si rifiutò, ritenendola una distorsione del messaggio originale.

Reagan, probabilmente fermandosi al titolo, la definì un “inno di speranza per il futuro del paese“, ma la canzone è tutt’altro.

In Born in the U.S.A. Springsteen denuncia il punto più basso toccato dal suo paese, lo schianto al suolo dopo aver provato a volare troppo in alto con la guerra del Vietnam. Il duro risveglio di una nazione che aveva capito di essere stata ingannata: il conflitto non aveva portato né vittorie né orgoglio, ma solo traumi.

Springsteen, come aveva già fatto in passato e continuerà a fare per tutta la sua carriera, con Born in the U.S.A. ha colto l’occasione per dare una voce all’America più povera. Quella dei reduci, di chi è in difficoltà.

Born in the U.S.A. è un canto di protesta di chi non ha mai creduto al sogno americano.

Ancora oggi, il messaggio del Boss risulta più che mai attuale, specie alla vigilia delle elezioni americane del prossimo 3 novembre 2020: gli americani dovranno tornare a credere nell’America. E, per farlo, dovranno ammettere di aver toccato il fondo.

a cura di
Daniela Fabbri

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

3 pensieri su ““Born in the U.S.A.”: storia della copertina dell’album più frainteso di Springsteen

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