Le ferite emotive: Monnalisa, l’abbandono e il ritrovarsi

Le ferite emotive: Monnalisa, l’abbandono e il ritrovarsi
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C’è qualcosa di incomprensibile nella resistenza ad affrontare il dolore.

Abbiamo paura a toccarlo, nel timore che si rianimi da un momento all’altro, carico di momenti che non vorremmo più rivedere. Proprio come di fronte alle ferite fisiche, che non tocchiamo più, per paura di riaprirle e farle sanguinare, lo stesso accade con le ferite emotive.

Più fuggiamo da questo dolore, più ci rincorre e ci viene a chiedere di affrontarlo. E i nostri sentimenti, il nostro modo di esprimerli, in casi come questi ne risentono, degenerando fino a diventare tossici.

Soprattutto l’amore può diventare nocivo, fino a degenerare in dipendenza emotiva. Si manifesta sotto forma di maschere, di disperazione e situazioni di grande sofferenza, e si vive la paura di rimanere da soli e l’incapacità di vivere la solitudine.

Spesso, soffriamo di più di una ferita da sanare nella nostra vita.

Le ferite emotive vengono dal passato di ciascuno di noi. Sono eventi traumatici che ci hanno segnato profondamente e che in qualche modo ci portiamo dietro, perché non li abbiamo risolti.

Ho passato gli ultimi anni a cercare di capire le ferite emotive: conoscerle, stanarle, e possibilmente guarirle. Quello che può essere un bilancio provvisorio, è che non esiste un modo corretto di guarirle, se non il volerle affrontare una volta per tutte, per amore di noi stessi e del nostro irrisolto. E ciò comporta uno scontro epocale con tutte le maschere che abbiamo indossato, e con tutto quello che abbiamo fatto per scappare nella speranza di non soffrire più.

Da questo principio cardine, ogni medicamento per guarirle è lecito: c’è chi comincia un percorso spirituale, c’è chi intraprende un viaggio in solitudine, c’è chi si dedica a un’attività sportiva con metodo e costanza, c’è chi cambia delle abitudini della sua vita, o chi cambia lavoro…

Non c’è un giusto e uno sbagliato. L’importante è andare oltre quel limbo che porta a essere incerti se se aprire la ferita di nuovo, per sentire quel dolore profondo e capirlo una volta per tutte, o se continuare a fare finta di niente, continuando a buttare sopra questa ferita bende provvisorie e unguenti di fortuna, mentre l’infezione continua a espandersi implacabile.

Uno dei più grandi mezzi di guarigione è stata ed è tutt’ora la musica.

La musica è un incredibile e immediato specchio del proprio sentire, dei sentimenti, del mettersi davanti al proprio dolore. La musica è uno dei mezzi più potenti e più universali di condivisione, in grado di trascendere le differenze e gli ostacoli comunicativi.

Il desiderio è proprio di parlare di questo viaggio attraverso le ferite emotive tramite la musica contemporanea. Non c’è stata una scelta programmata, in realtà l’intento iniziale non era neanche di legare quest’argomento alla musica. Ma si sa che le emozioni sono guidate da alchimie che non si possono prevedere, soltanto seguire.

Prima di svelarvi quale sia il brano scelto, la domanda fondamentale è: che cosa vuole dirci una ferita emotiva?

Ci dice di riappropriarci di un lato del nostro essere che abbiamo silenziato, a causa di un evento traumatico passato. E quel lato di noi che risorge dalla guarigione della ferita è il talento. Mai come nella musica si è parlato di una delle ferite emotive più diffuse nelle persone, la ferita da abbandono. Purtroppo però, poco si è parlato del talento che ne scaturisce dalla guarigione e dalla presa di consapevolezza.

Per fortuna, ci sono le eccezioni.

L’eccezione viene proprio da una band death metal italiana e dalla recente pubblicazione del nuovo singolo, accompagnato da un video molto curato esteticamente e molto interessante da un punto di vista simbolico.

Parliamo dei Fleshgod Apocalypse e del loro brano Monnalisa, tratto dal loro ultimo album Veleno

La tematica centrale del brano, partendo proprio dal testo, tratta proprio un aspetto cruciale della ferita dell’abbandono: la dipendenza emotiva dall’altro, arrivando fino alla perdita di se stessi e alla perdita di lucidità.

La solitudine ci appare insopportabile e sembra uno stato che ci causa solo sentimenti negativi, quali tristezza, paura, frustrazione. Ci fa paura, allo stesso modo in cui il bambino teme il buio e ha bisogno di essere rassicurato e di non stare da solo. 

Quando si dipende da una persona in tutto e per tutto nel nome di un sentimento che crediamo essere amore, non sappiamo più chi siamo, siamo confusi. Non siamo più in grado di agire in maniera salda per noi stessi, perché abbiamo demandato tutto all’altra persona.

La quale può pure rendersi conto che siamo estremamente manipolabili e usare quest’aspetto a suo vantaggio – anche se ciò è impensabile per chi dipende – perché abbiamo idealizzato e vestito d’amore una dipendenza affettiva.

Tanto temiamo l’abbandono, al punto che, dopo aver fatto di tutto per evitarlo in quanto nostra ferita primaria, ciò accade ripetutamente anche con la stessa persona, perché ogni volta compromettiamo qualcosa di noi, pur di aggrapparci a qualcuno.

Se gli/le diamo tutto, non ci lascerà mai; se lo/la facciamo sentire indispensabile nella nostra vita, rimarrà per sempre. Questa è la nostra credenza.  

Tutto ciò è un inganno, e viene splendidamente smascherato nel video di Monnalisa, prodotto dalle menti creative di Void ’N Disorder e diretto da Giovanni Bucci, il quale ha dato vita al concept pensato dal mastermind, chitarrista e cantante dei Fleshgod Apocalypse, Francesco Paoli.

Le immagini parlano molto più chiaramente di tante spiegazioni.

Proprio perché le immagini sanno arrivare a livelli profondi e inconsci con più agilità, l’invito è di guardare attentamente il video, perché è lì che ci viene mostrata la ferita dell’abbandono in maniera molto diretta e inequivocabile. 

Siamo noi che ci siamo persi, siamo noi che ci siamo privati di tutto, pur di avere qualcuno da reclamare come nostro da mettere al centro della nostra vita, qualcuno che ci auguriamo che possa contraccambiare.

Nel video la privazione viene rappresentata da ciò che ci viene tolto fisicamente, da dentro, con un taglio netto e chirurgico. Aprendo una ferita sanguinante in tutto e per tutto, ci facciamo togliere ciò che abbiamo di più prezioso. Ce ne priviamo, senza porre resistenze.

Tanto in Monnalisa viene mostrata la ferita aperta, tanto emerge quello che è il talento vero e proprio che ne scaturisce, di cui dobbiamo riappropriarci. Chiamatelo come volete: connessione, consapevolezza, centratura… Ma alla base c’è l’amore, quello vero, verso se stessi. Un amore autentico e sincero difficile da trovare solo fuori, perché prima di tutto è dentro di noi. Perché nulla succede là fuori, se non accade prima dentro di noi.

Nessuna ferita guarisce, se non siamo noi i primi a riconoscerla e a volerla curare: la verità dura da accettare è che nessuno lo farà al nostro posto.

Nessuno conosce la cura al nostro stesso veleno, se non noi.

Siamo soli di fronte a questa consapevolezza, e non possiamo pararci dietro nessuno. Ed è giusto che sia così, è giusto che ci faccia male fino a squarciare il velo delle illusioni.

Nessuno correrà a salvarci e a vivere il dolore al nostro posto, è qualcosa che appartiene ai film, alla fiction, alle credenze con cui ammantiamo il nostro vivere e sentire. Non esiste nulla che ci salvi, neanche un ipotetico amore, se non crediamo nella nostra capacità di ritrovarci e di sopravvivere a questo smarrimento.

Accettare di essersi persi, di essere stati feriti… Essere consapevoli che dobbiamo smettere di aggrapparci a qualcosa che ci sta rendendo profondamente precari, e che dobbiamo lasciare andare, è il primo passo per trovare una nuova strada fuori dalla ferita emotiva dell’abbandono: la strada del talento, del ritrovare noi stessi.

L’amore non deve implorare e nemmeno pretendere, l’amore deve avere la forza di diventare certezza dentro di sé. Allora non è più trascinato, ma trascina” 

Hermann Hesse

a cura di
Alessandra Leoni

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