Umberto Maria Giardini – Locomotiv Club, Bologna – 10 febbraio 2023
Uno degli artisti maggiormente maldisposti nei confronti delle logiche discografiche degli ultimi vent’anni offre una più che valida alternativa alla finale di Sanremo 2024 sviscerando dal vivo la sua discografia al Locomotiv Club di Bologna
Umberto Maria Giardini viene anticipato sul palco da Daniele Celona che, accompagnato al basso da Marco di Brino, regala un’atmosfera intima con il suo “cantautorato garage”. Con uno stile particolarmente aderente a quello dell’ex Moltheni, lascia a bocca aperta chi, tra il pubblico, ignorava la sua esistenza che inizia ad interrogare i vicini su chi sia.
Mondo e antimondo
Il locale inizia a riempirsi, arriva Giardini accompagnato da una band abile e disinvolta, ma anche da un certo alone aulico creato dalla consapevolezza degli ascoltatori su quello che è stato il suo percorso artistico. Sotto palco, infatti, si addensa un’orda di veterani super fan agé accompagnati dalla rispettiva prole. Nonostante, però, l’affetto mostrato sin da subito, con lo scorrere dei brani, qualche sbuffo qua e là inizia a farsi sentire.
Dal punto di vista sonoro lo spettacolo è impeccabile: la bravura dei musicisti che accompagnano il cantautore è percepibile sin dai primi brani e il romanticismo che avvolge i testi di Umberto coinvolge allo stesso modo oggi come alla fine degli anni ’90. Il “difetto” dell’esibizione non risiede nemmeno nel ritmo serrato con cui si susseguono le ballate rock, alternate con ringraziamenti e qualche battuta. Anche la disposizione invariata degli artisti su un unico “piano”, in fila, con Giardini sulla destra, non dà un effetto di staticità particolarmente disturbante.
Durante la prima ora/ora e mezza è apparso come uno dei concerti più emozionanti visti al Locomotiv. Giunti a metà, arriva un senso di noia collettiva particolarmente pesante. Dopo mille interrogativi sull’arrivo graduale di quella sensazione, si arriva finalmente ad una conclusione: è la struttura dei brani ad essere monotona. Anche su disco, la percezione è la stessa. Per quanto ci sia un’alternanza di strumenti e di temi, una “monoliticità” di fondo rende tutto poco dinamico.
Post Moltheni
Nel complesso, Umberto Maria Giardini è riuscito a riportarci per un paio d’ore alla qualità e all’autenticità che ha caratterizzato musicalmente l’Italia gli anni a cavallo tra il ’90 e il 2000. Quell’unione tra distorsioni, poesia e qualità tecnica è ormai difficilmente riscontrabile tra le ultime uscite discografiche; probabilmente, la staticità formale è un prezzo più che conveniente da pagare per la salvaguardia di questo elemento.
a cura di
Lucia Tamburello
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