PLZ: storia di uno spettro che vive lontano dai social

PLZ: storia di uno spettro che vive lontano dai social
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Uno spettro si aggira per la scena indipendente italiana. Lo spettro di PLZ. Un nome che è anche un modo per chiedere “permesso, posso entrare?”. Per favore, mi puoi far godere ancora una volta prima di sparire? P L Z è uno spettro gentile, raramente si arrabbia, se non quando si collega a un terminale e allora le sinapsi entrano in cortocircuito con i miraggi, le storture della rete.

Tenete lontano P L Z dall’internet e dai social meglio farlo stare in mezzo a un bosco, magari con un discman anni ’90 calato sulle orecchie (le orecchie che non ha), a ballare da solo come in quella scena in “The Lobster”. Che poi da solo P L Z non è mai. Più spesso è bino. Altre addirittura trino.

Nelle sue epifanie più comuni lo troverete sdoppiato fra un vocoder e una beat machine, mentre sostiene la sua ombra e da lei è sostenuto. Perché P L Z ha paura di tutto, tranne di ciò che gli può far male. Cieco per amore, non mostra il viso a nessuno. Un velo lo protegge, una maschera di lattice gli tiene insieme i connotati sempre a un passo dallo sciogliersi, dal distorcersi. P L Z ama le tresche, gli interstizi, le zone buie fra un lampione e l’altro, attraversare la strada senza guardare. P L Z è fedelmente infedele.

Non lo si sente per un po’, ma se lo chiami arriva, sempre. P L Z odia le gabbie, soprattutto quelle erette dall’isteria collettiva. Il suo motto è “vivi e lascia morire”. Anzi “dormi e lasciati fare”. Lasciatevi fare da P L Z.

Chi NON è P L Z?

Domandona. Probabilmente P L Z non è un sacco di cose. Ma cerchiamo di non essere troppo “esclusivi”. Possiamo dire che P L Z non è un’idea nata a tavolino, ma piuttosto un work in progress, un’entità i cui contorni vanno definendosi ogni giorno, cercando di assorbire e rielaborare gli input che vengono dal mondo esterno, dalle collaborazioni, dalle persone, dalle relazioni in cui questa cosa è immersa. Così come P L Z non vuole imporsi all’attenzione, all’immaginario collettivo, quanto più capirlo, decodificarlo, per poterlo penetrare meglio, con gentilezza.

In fondo è questo il significato di queste lettere: P L Z chiede “per favore”, prima di entrare. Un po’ come un dubbio che si insinua, un fragile ponte costruito nottetempo fra le faglie che sembrano dividere in modo così netto le opinioni delle persone. E questo vale anche per la musica: P L Z non fa un genere particolare, ma ama per definizione il sincretismo, poter attingere in libertà a qualsiasi cosa possa suonare eccitante.

Da dove nasce la scelta di non mostrare il volto e perché?

P L Z nasce dalla collaborazione artistica di due persone, dal lavoro di studio e produzione, cercando di fondere due mondi, due filoni: l’amore per l’elettronica, per la techno e i suoni riprocessati, e quello per la canzone, il racconto in italiano.

Volevamo quindi trovare una chiave per veicolare questa idea, per metterci al servizio della musica, rinunciando alla dimensione più propriamente narcisistica del mostrare i nostri veri volti. Il mondo dell’elettronica è potenzialmente infinito, macina nuove tecnologie mentre nel contempo si misura con i linguaggi del passato. Allora mettersi una maschera di lattice può servire a dichiarare questa attitudine di apertura al nuovo, questa intenzione a volersi far fare dall’esterno.

P L Z è un alieno, un fantasma, un essere in continua ricerca. Le maschere permettono questo tipo di rigenerazione, dando la possibilità nel contempo di mantenere una prospettiva più distaccata, per meglio dire “esterna”, rispetto al percorso.

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Vi dichiarate alieni in cerca di un senso su questa vita terrestre, ma il senso poi qual è?

Abbiamo la vaga impressione, per il tempo che siamo stati sulla terra, che un senso non ci sia. Per questo solitamente, più che darci una risposta, cerchiamo di farla noi questa domanda. Intuiamo però, almeno in base ai dati finora raccolti, che sia forse più proficuo abbracciare il caos, salire in sella, surfare sull’onda di questa eterna transizione, cercando di trovare un equilibrio fra l’affermazione del sé e il modo in cui le cose ci attraversano. Più che una pratica consolidata, questo è più che altro un obiettivo a cui tendere per approssimazione. Spesso sbagliamo, cadiamo. L’importante resta non prendersi troppo sul serio.

Che rapporto avete con Milano, la città che vi ospita e vi vede evolvere?

Con Milano c’è un rapporto di odio-amore, come è inevitabile che ci sia con la città dove sei nato e cresciuto. Siamo molto felici di vivere qui, ma ci piace anche guardare al di là dei tratti distintivi di una comunità, anche artistica. Per come è fatto P L Z (complice una situazione contingente che ci priva di uno spazio fisico preciso oltre le quattro mura di casa), vale comunque la regola che contano più le idee, le persone che le nicchie e i giardinetti identitari. Milano può essere una gabbia o un playground cosmopolita: dipende tutto da come ci si pone quando si vogliono fare le cose.

Parliamo di “SECOLI” e di questa cosa di non cancellare mai i numeri di telefono…

I numeri non si cancellano mai, a meno che non si abbia veramente più intenzione di avere a che fare con qualcuno, che si abbia la certezza di voler tralasciare quel pezzo di sé, il che è del tutto legittimo e, talvolta, salutare. Prima di farlo però, vale la pena pensarci. È così anche per le relazioni. Tagliare i ponti è sempre un atto di violenza verso sé stessi. SECOLI parla anche di questo. È una canzone che celebra l’apparente futilità delle cose che passano, quando invece quelle cose sono parte di quello che siamo.

La ricerca spasmodica dell’essenzialità, il dire “so chi sono”, ci sembra un atteggiamento un po’ presuntuoso nei confronti della vita in genere. Le cose, le persone sono parte di noi e a volte le persone ritornano e se ne vanno di nuovo, senza un motivo particolare. È bello ritrovarsi, poi perdersi di vista.

A dicembre uscirà un nuovo singolo, di cosa parlerà?

Per la fine dell’anno vogliamo anche noi fare un regalo. Un regalo simbolico, diciamo. Abbiamo realizzato la cover di un pezzo che appartiene alla nostra memoria musicale più remota, una canzone di Lucio che amiamo particolarmente. Si chiama “Noi come voi”, dell’83. Allora si percepiva la voglia di trovare un compromesso fra tradizione cantautorale e i nuovi suoni dell’allora nascente elettronica.

La canzone parla di un mondo diviso tra un noi e un voi, e nel contempo si auspica un ritorno all’attenzione per quegli incontri occasionali, quelle piccole epifanie che ci perdiamo per strada, nel volerci intestardire su una posizione determinata. Quest’anno è stato attraversato da continue polarizzazioni su ogni tema, scontri ideologici, identitari, generazionali: questioni che i social media ha ben messo in luce, a volte anche esasperato.

Abbiamo rifatto questa canzone un po’ per mettere in prospettiva questo tipo di dinamiche e farci l’augurio di un nuovo anno all’insegna della comprensione delle rispettive diversità in un’ottica più collaborativa. Insomma che il 2021 sia l’anno in cui faremo l’amore moltissimo.

a cura di
Giulia Perna

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