Dischi che escono – Maggio 2021

Dischi che escono – Maggio 2021
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Dieci dischi da ascoltare mentre aspettiamo di diventare zona bianca

Con la stessa partecipazione di quando vediamo le macchinine che girano e tifiamo per quella rossa perché è una Ferrari, qualche giorno fa abbiamo tutti guardato una competizione tra gente a noi per lo più sconosciuta, e abbiamo tifato in tanti per un gruppo di cui fino al giorno prima non ci interessava niente. Parlo ovviamente dell’Eurovision, parlo ovviamente dei Maneskin. Torniamo alla normalità con dieci album che con la baraonda colorata di Rotterdam non c’entrano niente, usciti negli ultimi 30 giorni. Alcuni da ricordare a lungo, alcuni da dimenticare subito.

Twenty-One Pilots – Scaled and Icy

Le avvisaglie di caduta libera nei singoli, tutto sommato, c’erano. Ma se non avessi effettuato una serie click consapevoli su Spotify, per ascoltare il nuovo album dei Twenty-One Pilots, avrei pensato che mi stessero somministrando un nuovo lavoro di Mika. Il duo alternative hip-hop statunitense, dopo la genialità inclassificabile di Blurryface e la cupissima pesantezza di Trench, fa infatti esplodere un tripudio inutile di canzonette allegrotte, colorate e dalla profondità media paragonabile a quella di Baby Shark. Grande imbarazzo.

L’highlight: La copertina
Per chi apprezza: Scommettere sui cavalli sbagliati

Voto: 3

Royal Blood – Typhoons

La caratteristica fondamentale dei Royal Blood era quella di essere un gruppo basso e batteria cattivo, senza fronzoli, con le quattro corde a simularne sei e a fare un macello. Non erano i contenuti a giustificarne l’esistenza e il successo, né le costruzioni musicali complesse o la voce del frontman. Ho usato l’imperfetto perché appunto i Royal Blood al terzo disco riempiono il loro sound di velleità che non possono reggere e di elettronichine e falsetti da cover band dei muse che vuole fare gli inediti. Peggio ancora, la produzione diventa criminalmente vellutata, morbida: un disco come questo deve grattare come l’esordio degli Audioslave per dare all’ascolto un minimo senso.

L’highlight: Million and one
Per chi apprezza: i silenziatori artigianali

Voto: 3/10

The Black Keys – Delta Kream

I Black Keys risolvono il problema dell’ansia del decimo album decidendo di non celebrare se stessi, ma di pagare un tributo agli artisti che li hanno convinti in gioventù a mettersi in braccio la chitarra e a sedersi dietro la batteria. Delta Kream, a detta loro, è stato registrato in meno di dieci ore in una lunga jam, e raccoglie cover di pezzi blues da intenditori. Per chi è un povero figlio dell’estate che non mastica il blues del Mississippi, può tranquillamente essere considerato un validissimo disco di inediti, con un paio di pezzi stupendi e un paio d’altri evidentemente troppo vecchi per essere svecchiabili.

L’highlight: Going Down South
Per chi apprezza: I film tratti dai libri

Voto: 7/10

St. Vincent – Daddy’s Home

Annie Clarke è il Pierfrancesco Favino del rock alternativo e lo conferma con una nuova metamorfosi: parrucca bionda e si passa dal porno-pop di “Masseduction” a una mezza rievocazione storica del soul di cinquant’anni fa. Profondissimi i testi, impeccabile la resa vocale (sempre profonda, carica, sensuale), pezzi per lo più efficaci escluse un paio di mollezze sparse omogeneamente sulla scaletta dell’album.

L’highlight: My baby wants a baby
Per chi apprezza: I trasformismi

Voto: 7.5/10

Girl In Red – If I Could Make It Go Quiet

Ogni anno guardo con tristezza sempre crescente l’anno di nascita di quelli che quest’anno stanno prendendo la laurea triennale (se in corso). Quest’anno tocca alla classe 1999. È allucinante. È terribile. Ciò detto è del 1999 anche Marie Ulven Ringheim, norvegese che ha capito di avere un cognome da romanzo fantasy e si fa chiamare semplicemente Girl In Red (tutto minuscolo). E che ha tirato fuori proprio un bellissimo album d’esordio, con un po’ di sussurri cool alla Billie Eilish, qualche cafonatina dancy da Festivalbar, qualche riverbero da disco dei Daughter. Marie galoppa anche verso il miliardo di ascolti cumulativi su Spotify. Decisamente di più di una laurea triennale. Ed è del 1999. Mannaggia mannaggia.

L’highlight: Rue
Per chi apprezza: Vedere i giovani che fanno grandi cose, braccia dietro la schiena, sguardo triste

Voto: 7.5/10

Iosonouncane – Ira

Scrivere una recensione in un range di parole che va dalle 100 alle 200 difficilissimo, con un rischio di non rendere la minima giustizia qualora tale album meriti. Nel caso della nuova opera di Iosonouncane, un monolite di avantgarde al cui confronto i Verdena sembrano Baglioni, diventa del tutto impossibile. “Ira” si compone di 17 pezzi dove gli strumenti sono tutti accartocciati in un pastone psichedelico opprimente dal quale non si esce mai, dove il canto in italiano viene abbandonato in favore di voci di sottofondo, tormentate, in lingue inintelligibili. Un’esperienza stranissima che scava il vuoto con il passato dello stesso Incani (dimenticatevi la copia carbone di Battisti di quella scemenza sopravvalutata di Stormi) ma anche del resto della musica underground italiano.

L’highlight: Tutto
Per chi apprezza: Non capire niente e goderne

Voto: 8.5/10

Margherita Vicario – Bingo

L’itpop più prevedibile viene caricato su un autotreno che trasporta il trash più esecrabile e portato a bordo piscina nel peggior beach resort di Punta Prosciutto. Una roba allucinante. L’intervento di Speranza, paragonato a tutto il resto, sembra una lettura a teatro dello Ulysses di James Joyce.

L’highlight: La possibilità di non sentirlo
Per chi apprezza: I b-movie trash-horror

Voto: 0/10

Vasco Brondi – Paesaggio dopo la battaglia

Brondi mi ricorda i collettivi di studenti comunisti che periodicamente, ogni volta che ci sono elezioni o fatti di cronaca significativi, arrivano ad appendere i loro manifesti in cui cambiano le date, i presupposti, i font e l’impaginazione, ma in cui il contenuto e le parole sono fondamentalmente gli stessi dal 1968. “Paesaggio dopo la battaglia”, per esempio, è un album che ci parla dell’Italia, senza bandiera, con i porti chiusi in mezzo al mare, con mille governi, mille profeti, le macerie, un po’ di ristoranti aperti post-covid per mostrare contatto con l’attualità. Sembra la pagina dei Dinosauri Onesti. Musicalmente la calma è ancora più piatta: è Brondi, non rimane tanto altro da dire. Anzi sì: che palle.

L’highlight: Mezza nuda
Per chi apprezza: Le mezze stagioni che, sappiatelo, non ci sono più

Voto: 4/10

VOLA – Witness

Leggere quel VOLA in maiuscolo mi fa pensare sempre a Lorella Cuccarini e mi fa identificare il nome di questa povera band come uno dei peggiori mai visti, malgrado questi danesi non abbiano senz’altro nessuna conoscenza della tv d’epoca italiana e stiano pian piano affermandosi come una delle più consolidate realtà europee di nuovo prog rock. Witness continua a proporre la loro particolare miscela di chitarroni pesantissimi, tastiere giocattolo e ritornelli stucchevoli, questa volta anche con una collaborazione hip hop e un paio di assoloni lenti e riflessivi. Una roba senza senso che non dovrebbe in nessun modo possibile funzionare, e che invece, per qualche strano motivo, funziona molto bene.

L’highlight: Freak
Per chi apprezza: la storiella del calabrone erroneamente attribuita ad Albert Einstein

Voto: 6.5

Lord Huron – Long Lost

“The Night We Met”, grazie fondamentalmente a “13 Reasons Why”, è un unicum, un picco di successo che a una band indie folk può capitare una volta in una carriera. I Lord Huron hanno avuto e hanno ancora il merito di non scomporsi, di cambiare giusto un paio di virgole accessorie del proprio sound (che si fa più nostalgico, tra un po’ di rockabilly e violini anni ’60) e continuare per la loro strada. Essere, cioè, la versione dei Lumineers che produce soltanto pezzi per lentoni da fredde serate americane.

L’highlight: la titletrack
Per chi apprezza: Revolutionary Road

Voto: 7/10

a cura di
Riccardo Coppola

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