“Semplice”, l’approdo della ricerca di Motta

“Semplice”, l’approdo della ricerca di Motta
Condividi su

In risposta a una domanda specifica su come avrebbe suonato questo suo terzo album, Semplice, Francesco Motta aveva risposto – in maniera abbastanza criptica – che il punto di riferimento sarebbe stato il suo disco dal vivo di un paio di anni fa. Quella che sembrava una boutade volutamente disorientante si è rivelata, già dall’ascolto del primo singolo “E poi finisco per amarti”, una indicazione precisissima.

Semplice, nonostante il titolo, è infatti un’opera che più di tutte le precedenti del cantautore pisano sembra risultato d’uno sforzo collettivo, di contaminazioni vicendevoli tra musicisti talentuosi, di idee progettate per essere portate su un palco e concretizzate in una forma che sappia più di band che di cantautore seguito da turnisti.

Novità e arricchimenti

L’album, inoltre, fa una serie di centri impeccabili cambiando sempre la foggia e l’aspetto delle frecce al suo arco: c’è il già menzionato singolo, ammantato di code che sanno di post-rock intersecate a orchestrazioni sintetiche e a un centralissimo violoncello; c’è l’atipico punk-rock, da Fast Animals and Slow Kids prima delle collaborazioni con Peyote, di “Tutto quello che non so di te“; c’è l’impressionante progressione da world music annegata nella psichedelia della title track.

Un evidente punto di approdo, quest’ultimo, di studi sonori finalmente giunti a pienissima maturità, dopo essere stati appena apprezzati in Vivere o Morire e presto abbandonati per una confortevole forma canzone imperniata sulle chitarre.

Evidentemente indispensabili, in questo processo di arricchimento stilistico, il basso e le percussioni di Bobby Wooten e Mauro Refosco, turnisti a tempo pieno di David Byrne e in smart working da New York per la registrazione di tutti e dieci i brani di questo album.

Avere trent’anni (e oltre)

Un lavoro dunque di addizione, per costruire una cornice più moderna e internazionale a un cuore cantautoriale che (per fortuna) rimane comunque del tutto immutato.

Motta continua a raccontare gli sbalzi d’umore del suo lento, ma continuo e inesorabile sprofondare nel decennio che comincia con i trent’anni. Ricorda di bevute spensierate di quando la vita era ancora tutta davanti, delle illusioni di riuscire prima o poi a cambiare ciò che si ha attorno, della insopportabile pesantezza dei ricordi (anche a quattro mani con Brunori, nell’ultimo pezzo “Quando guardiamo una rosa“).

Motta, fondamentalmente, ha la capacità di spiegare la vita e anche l’amore come sequenza di gioie istantanee e fugaci, quando comunque ogni giorno che nasce è inevitabilmente un nuovo disastro da cui bisogna capire come tirarsi fuori. Racconta cose che capitano a tutti, con il punto di vista disilluso di chiunque abbia passato l’adolescenza indenne e abbia dovuto cominciare a venire a patti con tutto il mondo di fuori. Soltanto, lo fa meglio di tutti gli altri.

Per chi apprezza: Rimuginare amaramente ma non troppo
L’highlight: Semplice

a cura di
Riccardo Coppola

Seguici anche su Instagram!
LEGGI ANCHE – Ermal Meta: “Tribù urbana”, per guardare dentro e fuori di sé
LEGGI ANCHE – La leggera intensità di Colapesce-DiMartino

Condividi su

Riccardo Coppola

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *