Ha ancora senso l’etichetta discografica?
La concezione di etichetta discografica è cambiata radicalmente nel corso del tempo. Tuttavia si continua a fare confusione su alcuni aspetti: un artista può autoprodursi, ma anche appoggiarsi a una casa discografica per determinati passaggi
Negli ultimi 20 anni il ruolo dell’etichetta discografica è cambiato, soprattutto nel caso del panorama musicale emergente. L’avanzare delle tecnologie, sia per la produzione, sia per la fruizione della musica stessa, ha mischiato le carte in tavola.
Tuttavia, ancora oggi affidarsi a un’etichetta discografica può avere i suoi vantaggi.
Attualmente sono tanti gli artisti emergenti e di talento che si affidano a un’autoproduzione di buon livello. Questo è un aspetto che facilita molto il lavoro del musicista, ma è a partire dallo step successivo, ovvero quello della distribuzione, diffusione, comunicazione e del deposito diritti SIAE del proprio lavoro, che ci si trova dinanzi a uno spartiacque: fare tutto da solo o delegare?
Ecco che qui può essere d’aiuto l’appoggio dell’etichetta discografica. Diventa l’apparato al quale l’artista delega passaggi burocratici, il controllo dei file (formato, bitrate, ecc) e l’adempimento alla distribuzione che, sì, potrebbe fare anche lui stesso, ma che causerebbe una ben più che discreta perdita di tempo e di eneregie mentali.
L’etichetta discografica può essere anche utile per quanto riguarda la decisione di una strategia base per il lancio di un singolo o di un album: lo staff conosce i periodi da evitare e quelli più indicati, può consigliare in caso di artwork e concordare la giusta comunicazione.
Non un nemico, non un dinosauro estinto, ma un alleato: l’etichetta discografica investe sull’artista e si fa carico affinché possa emergere nel migliore dei modi.
Publiredazionale a cura di
Staff
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