“Unlocked”: un macabro gioco d’identità

“Unlocked”: un macabro gioco d’identità
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L’esordiente regista Kim Tae Joon svela in “Unlocked” una crisi psicologica dietro un furto d’identità digitale

In una realtà in cui la tecnologia è lo strumento delle nostre relazioni sociali, “Unlocked” è l’estremizzazione raffinata quanto banale di quello che può negativamente accadere se la stessa dimensione tecnologica sostituisce completamente le dinamiche interpersonali.
Tratto dal romanzo di Akira Shiga, da cui è stato già tratto un lungometraggio giapponese dal titolo Sumaho o otoshita dake na no ni (conosciuto internazionalmente come Stolen Identity), Unlocked si pone come la trasposizione cinematografica sudcoreana, diretta dall’esordiente regista Kim Tae Joon e distribuita sulla piattaforma streaming Netflix.

Trama e personaggi

La trama si basa su un prevedibile intreccio tra la vita di Na-Mi (interpretata dall’attrice Chun Woo-Hee), marketer di una start up e aiutante barista nel locale di suo padre, e quella dello stalker seriale Joon-Yeong (interpretato dall’attore già noto nel panorama dei k-drama Im Si-Wan).
Il tutto inizia con una serata karaoke che la protagonista trascorre con le sue amiche, dopo la quale perde il telefono cadutole nel bus di ritorno a casa. Lo smartphone viene ritrovato da Joon-Yeong, ragazzo dalle grandi doti informatiche che fin da subito si scopre architettare un malefico piano per appropriarsi dei dati personali al suo interno, per infine arrivare ad interferire sadicamente nella vita di Na-Mi. La allontana da tutte le sue persone più care: rapisce il padre, le procura l’odio dalle colleghe tramite un gioco di hackeraggio sui social riuscendo a farle incolpare la sua migliore amica; proprio quest’ultima, che sin dall’inizio le è stata vicino ed ha cercato di farle aprire gli occhi su quell’esperto informatico che tramite una serie di coincidenze ben calcolate è stato in grado di attirare le sue attenzioni.
Nel frattempo, giungono notizie di cronaca riguardo il ritrovamento di diverse vittime uccise e sepolte; si aprono le indagini investigative da parte della polizia che conducono come primo indiziato proprio il figlio dell’ispettore capo, che invece si scopre essere inaspettatamente la prima vittima della serie di uccisioni attuate da Joon-Yeong, il vero stalker omicida.
Quindi Na-Mi è l’ultima preda su cui ha puntato il suo mirino, incubata in una spirale di terrore che la segnerà nel profondo.

Un’identità intrappolata

E’ interessante come questo thriller psicologico sia lo specchio macabro di una società globalizzata, alienante, denotato anche dalla scelta di riprese che offrono una visione d’insieme alternate a quelle in prima persona. Una immedesimazione che è in grado di far trasparire l’idea della meccanicità delle sue azioni, l’acuirsi di suspense e tensione come vorrebbe la costruzione del genere cinematografico in questione.
Non è un caso la scelta di voler enfatizzare il contesto e le azioni sulla psiche dei personaggi: in generale Kim Tae Joon apre uno squarcio sull’identità personale e la percezione esterna.
Il quadro che ci offre attraverso il coinvolgimento di smartphone e social media è l’intensa questione di dissociazione della personalità; abbiamo donato un certo potere ad un oggetto capace di plasmare un avatar digitale talmente realistico da sostituirci. Il problema alla base è: “Siamo davvero in grado di distinguere quello che siamo da quello che vogliamo far apparire sui social?”; “L’identità è davvero qualcosa che si può copiare come un file di un pc?
Con ciò non affermo che il regista abbia voluto regalarci un panorama così dettagliato in merito, ma le varie parafrasi che si possono leggere tra le righe di una scena e l’altra sono molteplici: lo scrittore Milan Kundera affermava che il corpo non è altro che un marchingegno costruito per ingannare la vera essenza degli uomini, allo stesso modo è proprio la digitalizzazione ad aver originato questo involucro identitario.
D’altronde il personaggio di Na-Mi è proprio la personificazione di una crisi con sé stessa: dopo la perdita del telefono, l’oggettificazione della sua identità; dopo l’allontanamento con i suoi affetti poiché ciò che crediamo essere incollato alla nostra dimensione privata ed interna a volte è il contatto con l’esterno.

Conclusioni

Il sottoscritto, scrittore esordiente di questo primo articolo, ha provato in prima persona ciò che è accaduto alla protagonista in un bar del campo di Santa Margherita di Venezia. Sono uno studente fuorisede dell’università di Bologna e mezz’ora prima di prendere l’ultimo treno della giornata Venezia-Bologna mi sono reso conto di aver perso non solo il mio smartphone, ma tutto quello in cui potevo identificarmi. La ricerca in corsa quasi ossessiva, la tentata geolocalizzazione, il tutto pur di non dover rassegnarmi all’idea di aver frantumato per sempre i miei ricordi e che qualcuno potesse appropriarsene. L’ansia che qualcuno possa rubare tutte le informazioni che ti appartengono è quella che si ha quando si intacca la propria sfera personale, l’incubo di Na-Mi ed il mio è lo stesso in cui si è racchiusa tutta la società impacchettando in codici binari le sfaccettature della propria essenza.

a cura di
Fortunato Neve

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