“Anita”: il Management del dolore post-capitalistico (intervista)
Svisceriamo “Anita” con Luca Romagnoli evidenziando come sono cambiati i suoi testi nel tempo in relazione al mondo che lo circonda. L’amore, il dolore e una certa rassegnazione all’egemonia capitalistica diventano i nodi centrali degli ultimi lavori del Management
“Anita”, il nuovo singolo dei Management, si trasforma in un buon pretesto per chiedere un’intervista ad una delle band da cui negli anni, in maniera volontaria o meno, si sono ottenute grandi risposte e un’enorme motivazione per reagire ai problemi. Questa intervista, conclusa con un ironico: “Sei libera di farmi sembrare molto più intelligente di quello che sono”, viene consegnata nuda e cruda con la sua presentazione sincera della triste realtà dei fatti.
E la verità è che dagli inizi del 2000 ad oggi “Un mondo al veleno” ha trasformato un po’ tutto: le canzoni sono diventate cupe, l’incubo non è più stupendo ma reale, il sonno è interminabile, le domande delle intervistatrici diventano stucchevolmente esistenziali e le risposte degli artisti (pur rimanendo brillanti) diventano realisticamente pessimiste. “Anita” è un pezzo di “non lotta” che racconta la brutalità dell’oggi. Questa intervista è palesemente rassegnata al presente, brutta come la verità che, se sbattuta in faccia, diventa affascinante quanto un dialogo su un mondo idillico e speranzoso.
Com’è andando il tour?
Siamo in tour da quando è uscito il disco nuovo “Ansia capitale” quindi, se non ricordo male, da giugno dell’anno scorso e le date sono andate tutte davvero strabene, siamo super contenti. È finita quella storia dello star fermi, dello star chiusi e non abbiamo intenzione di fermarci più. Vogliamo recuperare il tempo perduto. Siamo un gruppo che live forse si esprime al meglio. Sul palco portiamo ulteriori punti di urgenza che a volte per scelte stilistiche non escono fuori dal disco. È uno scoprire qualcosa in più, un passaggio ulteriore.
Parliamo di “Anita”: nella spiegazione del brano avete descritto il profilo dei “cuori liberi” in relazione all’amore, ma hanno altre caratteristiche?
Nella stessa pagina di presentazione che tu hai letto c’era un po’ la risposta a questa domanda. Il punto è proprio quello: i cuori liberi hanno un vantaggio poetico, quello di cui noi cerchiamo di parlare, che però è fatto anche di tanta sofferenza. Il cuore libero si ritrova sempre a fare delle cose controcorrente, a cercare un modo di amare che è tutto suo, che è sempre nuovo, che lo riempie sempre di nuove gioie.
Ma (una cosa tristissima da dire) come dicevano i poeti russi: “Questo mondo forse non è attrezzato per la felicità”. A meno che non si stia fuori dal disegno di pensiero umano e quindi essere animali (cose che non siamo), siamo destinati al pensiero: quanto più il pensiero cerca la propria storia da raccontare, un proprio Io, tanto più soffre. A meno che non si decida per sfinimento di accettare tutti i meccanismi della società e farseli andare bene, cosa che gli stessi dottori chiamano maturità. Io non so come si possa definire, ma sicuramente si sta meglio, poi dipende da cosa uno voglia nella vita.
Uno degli elementi centrali nella vostra discografia sono gli effetti del capitalismo sulle relazioni umane; come ha fatto l’amore dei cuori liberi a proteggersi da un mondo fatto di consumismo e marche?
Lo stavamo dicendo prima, dipende dalla visione che uno ha dalla vita. Per me è impossibile, punto, non si tratta né di psicofarmaci né psicologi. Ripeto, è l’accettazione totale delle cose che ci stanno in torno e questo è un segno, è anche un po’ spegnersi, non so se sia una cosa bella. Bisognerebbe distaccarsi un po’ dalle cose di questo mondo, ma è così difficile.
Non credo neanche troppo nella spiritualità, nella meditazione. Noi abbiamo dentro geneticamente un altro tipo di cultura, di approccio alle cose. Le parole fanno tanto: nasci in un posto, in una cultura, con un cero tipo di parole, di educazione e quindi uscire proprio fuori totalmente dal sistema…Oddio, se qualcuno ci riesce è un genio miracolato, ma non conosco persone che sono riuscite a vincere soprattutto adesso. Il sistema capitalistico è diventato così pressante, così potente.
Da quando ci hanno messo in mano tutti questi mezzi che noi utilizziamo con tanta serenità, questi che chiamiamo social e tutto il resto, loro sanno tutto di noi, hanno tutte le informazioni. Come puoi sconfiggere un nemico del quale tu non conosci nulla, non sia neanche come si chiami e lui sa tutto di te. Mi viene anche un po’ da pensare negativamente, non credo che ci sia neanche una possibilità politica al riguardo. Gli stessi meccanismi entrano a far parte anche della politica e dei potenti in generale.
Loro sanno tutto di te; come puoi ribaltare il sistema sotto tutti i sensi? Come puoi politicamente fare una rivoluzione o rivoluzionare le cose in positivo? Queste cose succedono solo quando fanno comodo all’economia. Adesso hanno capito che una cosa buona e giusta come l’ecologia ce la possono vendere, e allora adesso ce la stanno vendendo tutta. È una cosa buona e giusta, ma quand’è che è uscita fuori? Quando loro hanno trovato il modo per guadagnarci sopra. Finché non ci guadagnano loro, non noi, non si fa niente.
Nella vostra discografia avete sempre elogiato la vita in una maniera quasi cristiana nei vostri testi. “Anita”, invece, tratta la morte in una maniera stoica, la mostrate come una forma di liberazione da una vita sofferta; come mai è avvenuto questo passaggio?
È una storia come tante che può parlare di tanti di noi, però è comunque unica e ci sono diversi modi di vedere le soluzioni ai problemi o si può affrontare la vita in tanti modi diversi. Come anche quello di accettare la morte che è difficilissimo soprattutto per noi occidentali nonostante ci abbiano detto che ne abbiamo un’altra dopo quindi ci dovremmo preoccupare poco. Evidentemente non ci crede nessuno. Questa storia, quando la si va a raccontare è probabile (ma non è detto) che si voglia raccontare anche qualcosa di sé, un proprio modo di vedere le cose.
Io la odio la morte sinceramente, come hai detto tu prima, amo tanto la vita, però credo che, come diceva De Crescenzo: “La vita non va allungata, ma va allargata”. Non contano gli anni, conta questo riempirsi di esperienze ed emozioni. Se io, per rientrare in determinati canoni sociali ma anche medici, devo fare una vita che mi porta lontano da tutte le esperienze più belle perché il lavoro ti porta via anche il tempo libero e questo tempo libero siamo abituati a viverlo di piaceri, rientra pure quello nel meccanismo capitalistico. Io non so come uscirne fuori, il modo migliore che conosco è farmi una bottiglia di vino. Gli altri, ci sto lavorando, ma come hai potuto notare dalla vaghezza della mia risposta e dalla mia confusione, in questo percorso che sto facendo per trovare me stesso sono molto lontano dall’arrivo.
L’ultima notte d’amore di “Anita” non è sufficiente a salvarla quindi diventa un modo per “allargare” la sua vita?
In realtà la sua notte d’amore non verrà mai. Le persone di cui parlavamo, che abbiamo sintetizzato con “cuori liberi”, sono persone che non si possono accontentare. Sono persone ci vanno tanto vicino o che fanno quello che poi fanno tutti gli altri, ma tutti gli altri lo chiamano amore e loro no perché dicono: “Vorrei qualcosa di più, vorrei esplodere di emozioni, vorrei morire di un overdose di emozioni”. Quindi è un momento che forse non avviene mai perché questa vita è fatta di limiti, ce l’hanno insegnato in tutti i modi. Più cresciamo, più diventiamo vecchi, più la cosa diventa assordante e difficile da spiegare. Quello che ci hanno insegnato nella nostra cultura è che si può sopravvivere accettando i propri limiti. È triste e a me non va bene.
Com’è nata la collaborazione con Je Suis Bordeaux?
Germana Stella è un’artista che io ho sempre seguito su Instagram. Con le poche cose buone di Instagram cerchiamo un po’ di creare delle collisioni quando ci sono. Il lavoro di questa ragazza a me piaceva tantissimo perché riusciva, attraverso le immagini, a raccontarsi molto in profondità. Lei fa cose molto particolari, ma in un periodo che forse era quello della pandemia, lei si raccontava in mille modi diversi all’interno della stessa camera, con lo stesso sfondo, un muro bianco semplicissimo a spiovente.
C’era addirittura questa presa della luce che era sempre lì e che mi faceva impazzire. Poi lei entrava e attraverso i movimenti, i vestiti, gli sguardi, i capelli, raccontava tutto il suo mondo. Leggere poi le parole che lei accosta a queste immagini è un “di più” che ti crea un legame ancora più forte. Io ero già stato fulminato solo dalle immagini. È un modo di lavorare, come piace a me: molto sporco, molto semplice, molto puro, ridotto all’essenza, lo-fi, di bassissima qualità, immagino fatto quasi sempre dal cellulare o da qualche altro mezzo “di fortuna”. In questo modo a me il suo mondo è arrivato in maniera molto forte, sento di essere vicino a lei e di avere tante cose in comune
“Anita” e “Il Demonio” sono collegate in qualche modo? “Anita” è affetta dal demonio o sono due condizioni diverse?
“Il Demonio”, in cui c’è stata questa collaborazione con Cimini e Carnesi, è stata scritta ad otto mani, mentre “Anita” è stata scritta a sei mani con Emanuele Fusaroli che ha prodotto “Auff!!”, “McMAO” e altri nostri dischi. Quindi ci sono le emozioni anche di altre persone e questo mi piace perché quando si riesce a creare una linea di pensiero comune a tutti sono molto contento. Poi mi sembra evidente che, preso da angolazioni diverse, il tema principale che parte da “Ansia Capitale” e poi si sviluppa in “Anita”, “Il Demonio” e in altre canzoni che sentirete è quello del malessere dovuto soprattutto a condizioni esterne.
Altre filosofie di vita ci insegnano che bisogna prima trovare la pace con sé stessi, che non staremo mai bene con l’esterno finché non staremo bene con noi stessi. Però che significa stare bene con noi stessi? Chi lo ha mai capito? E allora uno vive, nasce e, nella maggior parte dei casi, è un lavoro che non può e non vuole neanche fare. È molto, molto difficile stare bene, trovare un equilibro, e allora ci troviamo ad affrontare le cose della vita. Noi vorremmo nascere in una vita molto semplice da vivere, ma non è così, e allora buttiamo le colpe sull’esterno. È una cosa da immaturi? Sì, ma non è colpa di nessuno.
C’è da dire anche che il mondo è cambiato tanto, è cambiato già tanto da quando ero piccolo fino ad oggi, e i poteri esterni, quello che abbiamo attorno, è diventato troppo troppo più potente di noi. Il nostro peso politico e sociale è troppo troppo diminuito. Guarda negli ultimi venti/trent’anni cosa è successo in Italia: nulla, forse siamo peggiorati. Adesso combattere con l’esterno è molto più difficile. Prima anche se il dittatore o il potente era tra i più efferati dell’umanità aveva un nome e un cognome.
Adesso parliamo di gente buona e brava che inventa metodi per farci rimanere attaccati ad uno schermo e rovinarci la vita comprando tutte le cose insensate ed inutili di cui ci circondiamo, ma è troppo difficile per noi resistere a queste tentazioni. Io direi che è impossibile. La parola di questa intervista è “impossibile“: per ogni domanda la risposta finale, dopo aver tanto girovagato in pensieri inutili, è che è impossibile vincere contro questa gente, non si vince, basta. E quindi qual è la nostra vittoria? E chi lo sa, boh
Da “Un incubo stupendo” in poi vi siete spostati verso il pop, ma a mio avviso, c’è anche una tendenza sempre maggiore alla semplicità; quanto è importante per voi questo elemento? Quanto è difficile coniugare tanti anni di esperienza con questa “non voglia” di sperimentare troppo?
Con “Ansia Capitale” abbiamo sperimentato molto. Abbiamo ridotto tutto all’osso, la questione è molto minimale, però abbiamo lavorato tanto proprio perché era il periodo della pandemia, eravamo chiusi, quindi abbiamo cercato delle sonorità particolari. Siamo andati anche molto lontani dal pop. In generale, abbiamo questa tendenza, soprattutto nei singoli, di scegliere qualche canzone che possa parlare di tutti. Ci sono delle canzoni che noi amiamo fare e che inseriamo in tutti i dischi che facciamo che parlano solo di noi, che sono un po’ distanti anche dalla realtà e dalle esperienze che possiamo tutti provare o comunque dalle modalità musicali e produttive che abbiamo voglia di tirare fuori.
Ci sono delle cose che ci rendiamo conto di fare per noi stessi, di solito quelle le lasciamo scoprire al pubblico con calma durante i live o nei dischi. Mentre per i singoli, pur rimanendo un po’ marginali, cerchiamo sempre di parlare di emozioni un attimo più comuni come il malessere. La nostra tendenza emotiva è sempre quella di scegliere il racconto degli ultimi, di chi soffre, di chi ha bisogno, di chi è tormentato. La vita e il pensiero dei vincenti, di chi riesce ad essere felice con poco non ci interessa molto. È una società così piena di vincenti, quelli veri e quelli falsi, quelli che fingono di esserlo e non lo sono su queste fotografie tutte imbellettate. In ogni caso non mi interessano, non ci interessano.
Forse avrei un vago interesse per chi si nasconde dietro a questi atteggiamenti perché quello è già un tormento, è già una forma di disperazione. Quello che mi interessa oggi giorno delle cose che ci circondano è scoprire “Il Demonio” dentro chi lo nasconde molto bene.
a cura di
Lucia Tamburello
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