L’immensità: un film necessario
Mentre vi scrivo è ancora nelle sale l’ultima opera di Emanuele Crialese: “L’immensità”. Il film presentato al Festival di Venezia è stato accolto da 12 minuti di applausi. In contemporanea all’uscita, Crialese ha fatto coming out dichiarando che il film è autobiografico.
Si sa che i grandi registi a un certo punto della loro carriera raggiungono una padronanza del loro linguaggio. A livello tecnico e artistico sono in grado di lasciare un segno personale nel modo di fare cinema. Possiamo citare “8 e mezzo” di Fellini, “Il pianista” di Roman Polanski, “Roma” di Alfonso Curon. Emanuele Crialese, regista di film acclamati da pubblico e critica, ha confessato che L’immensità è stato un film necessario e che ha impiegato undici anni per realizzarlo.
Una vicenda intima
Non deve essere facile rappresentare il proprio vissuto, le vicende intime e famigliari. Ma soprattutto la questione di genere che lo ha portato ad affrontare ogni pregiudizio senza sensi di colpa tenendo alta la propria dignità. Come ha dichiarato Crialese stesso “si arriva al mondo così e a un certo punto la scelta è quella di continuare a credere in sé, nel proprio percorso, oppure morire”. È così che nasce L’immensità. Un film di formazione “diverso” perché tratta di una vicenda famigliare ambientata negli anni ’70 e di una ragazza che si sente “altro” rifiutando il suo nome e la sua identità.
Le sceneggiature di Crialese con Francesca Manieri e Vittorio Moroni ci riportano indietro nel confortevole mondo di una famiglia borghese. Felice, interpretato da Vincenzo Amato attore feticcio dei film di Crialese, è il classico padre fedifrago, vecchio stampo, che fa sentire la propria autorità in casa. Clara, interpretata da Penelope Cruz, è spagnola, madre di Adriana (Luana Giuliani). L’ipocrisia coi parenti, che salvano le apparenze, le acconciature e le macchine sportive, il momento serale davanti alla televisione. Tutto questo, nel film, è splendidamente ritratto in una luce tenue e chiaroscura tipica di quegli anni.
Effetto 70…e non solo
Ma il film va aldilà dell’effetto nostalgia. Il film è incentrato proprio su Adriana che vuole farsi chiamare Andrea. Fa le boccacce quando sua nonna la veste da bambina e vive segretamente un’amicizia intima con una sua coetanea incontrata in una zona considerata non sicura. E’ interessante osservare le dinamiche famigliari, il rapporto di Adriana/Andrea col fratello e la sorellina, ma quello che colpisce sono gli sguardi e l’intesa con sua madre. Schiacciata anch’essa dai ruoli, dalle mamme “amiche” così rassegnate e vinte, Clara cerca un’evasione impossibile, costretta a subire la prepotenza di un marito.
In uno sfondo famigliare che è conforto ma anche prigione, Adri/Andrea cerca delle vie di fuga. Costruisce rudimentali antenne per un contatto extraterrestre oppure, più semplicemente, si rispecchia nei personaggi della televisione. Adriano Celentano che tira fuori un brano nonsense, con un testo che è sostanzialmente un gramelot, come “Prisencolinensinainciusol”. Ma soprattutto Raffaella Carrà, donna simbolo della libertà artistica individuale, definita “un’icona transfemminista senza tempo”. Adri/Andrea si rivede in quei personaggi, simboli di fuga da una realtà dalle regole rigide.
Formazione e identità
Un film di formazione, quindi, che attraverso il personaggio di Adri/Andrea desidera rappresentare un’identità che vuole esprimersi liberamente. Interessante il legame unico e indissolubile con la madre. Un mistero che si esprime negli sguardi, nelle riprese ravvicinate dei volti. E in questo la scelta di Penelope Cruz non è a caso, perché essa stessa è icona dei film di Almodovar, altro regista che ha rappresentato un modo diverso di vivere la sessualità in maniera libera e incondizionata.
Tra i siparietti da musical in bianco e nero e le rigide regole famigliari in mezzo c’è Adri/Andrea. Il suo bisogno di cercare, da qui il titolo, ne L’immensità un po’ d’amore, come recita la canzone di Don Backy. Il risultato complessivo del film però non si discosta da una fiction di lusso. La mano autoriale di Crialese si lascia andare solo in alcune sapienti sequenze da grande cinema, ma si lascia forse prendere la mano da un discorso forse troppo personale. A differenza di film come Respiro (2002) e Nuovomondo (2006) dove Crialese rappresentava vicende famigliari viste da un occhio cinematografico più clinico, qui si lascia andare rischiando di perdere di vista la sua mano sapiente.
a cura di
Beppe Ardito
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