Intervista a Matteo Lolletti, direttore artistico del Meet The Docs! Film Fest

Intervista a Matteo Lolletti, direttore artistico del Meet The Docs! Film Fest
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Se il mondo è cambiato, allora come facciamo a raccontarlo?“.

Questo il quesito con il quale il direttore artistico Matteo Lolletti, ci presenta il Meet The Docs! Film Fest, un festival sul cinema documentario che prende il titolo di Storie di un altro mondo. Il Meet the Docs! Film Fest si terrà a Forlì dal 14 al 17 ottobre. Si presenta come un festival atipico: oltre alle proiezioni di documentari nazionali ed internazionali infatti promuove workshop per addetti ai lavori ed appassionati, nonché numerosi interventi di esperti del settore. Il programma è ovviamente disponibile sul sito, ed è in costante aggiornamento.

Abbiamo avuto l’occasione di scambiare due chiacchiere con Matteo, per comprendere meglio la natura ed il metodo con il quale è stato concepito il festival. Ne è uscito un meravigliosa conversazione ricca di spunti.

Salve sig. Lolletti , benvenuto su The Soundcheck! 

Salve a voi e grazie per questo invito davvero molto gradito. Però facciamo che ci diamo del tu?

(Molto volentieri! Da qui in poi, poiché l’intervista si è svolta in differita, mi concedo il lusso di cambiare la forma delle mie domande. Buona lettura!).

Per cominciare, potresti farci una breve presentazione di te stesso? Come nasce la tua passione per il cinema ed in particolare per il cinema documentario?

Sono una persona dalle numerose e articolate perversioni, tra le quali le principali sono forse essere un documentarista, un produttore e sceneggiatore cinematografico nonché un docente universitario che insegna audiovisivo. Buona parte di ciò che faccio mette in imbarazzo mia madre con le sue amiche e ogni tanto, ancora oggi, lei mi chiede che lavoro io faccia davvero, una domanda a cui, in realtà, non so rispondere.

Direi però che il cinema ha sempre fatto parte di me, fin da bambino, che io ricordi. Sono passioni brucianti e istintive, quelle di questo tipo, passioni che nascono all’incrocio tra diverse mie storie personali e intime: affetti famigliari, abitudini ereditate, bisogni d’attenzione e d’amore… Il documentario è invece una sorta di conquista, quasi una maturazione di consapevolezza. L’ho vissuto e lo vivo ancora come una specie di prolungamento dei miei valori etici e politici, quasi come il prolungamento di una militanza.

Il documentario è entrato nella mia vita per la necessità che avvertivo di raccontare mondi e storie non raccontati, o raccontati male, come pratica per provare a incidere sul reale, perché siamo convinti che i documentari salveranno il mondo.

Da direttore artistico, quali obbiettivi ti sei prefissato per questo festival? Da un punto di vista personale, invece, cosa ti sta lasciando questa esperienza?

Quello che ci interessa è costruire ponti e abbattere muri. Crediamo che il cinema del reale rappresenti una grande possibilità, quella del confronto e, perché no?, anche del conflitto. Crediamo che un documentario possa tracciare relazioni con l’alterità, suggerire sguardi differenti, favorire percorsi alternativi alle narrazioni mainstream.

Oltre a ciò, possiamo dire che il documentario è una pratica che di recente ha conosciuto e sta conoscendo un momento di particolare benessere, con una rinnovata attenzione anche da parte di un pubblico più largo del consueto. Niente di eclatante, anzi, ma è un cambio di rapporto che si percepisce.

Oltre a ciò, stiamo assistendo a una mutazione che sta portando, e in parte ha già portato, il cinema del reale a modificarsi in maniera piuttosto radicale, rispetto alle forme classiche a cui siamo abituati a pensare quando parliamo di documentario. Il rapporto che il documentario intrattiene oggi con il reale, infatti, si articola in una relazione fluida e imprevedibile, come d’altronde è fluido e imprevedibile il reale stesso. Ci interessa allora anche esplorare questi confini.

In questo senso, fare un documentario è un atto di coraggio, così come lo è fare un festival di documentari, secondo noi. E quando dico noi, dico tutti noi che lavoriamo al Festival, perché io sarò anche il direttore artistico, ma il festival è, come il cinema, un atto collettivo, sia in termini creativi che come atto responsabile rispetto alla contemporaneità. Ogni anno, e questo è il quinto, si tratta di un’esperienza diversa, per le storie che ci troviamo a raccontare, per le esistenze che incrociamo, per i luoghi che decidiamo di abitare, per le soglie che pensiamo sia giusto visitare.

Fare un documentario — se fatto sinceramente — ti cambia la vita per sempre, e raccogliere queste vite cambiate, ti cambia nuovamente. Poi c’è la questione meramente organizzativa, che in un contesto come quello attuale, ossia italiano e pandemico, in cui la cultura è considerata un elemento residuale rispetto alle priorità che la politica stabilisce, è un’esperienza a tratti surreale.

Al festival saranno presenti Lorenzo Hendel, Giulio Sangiorgio di FilmTv ed anche una collaborazione con l’Internazionale. Qual è il metodo con i quali avete selezionato i vari workshop e quali altre attività dobbiamo aspettarci? 

In questi anni abbiamo pensato ai workshop come a esplorazioni perimetrali che avessero come baricentro la relazione e il dialogo, diretto o indiretto, con il reale e la sua rappresentazione. Quindi non solo incontri o workshop o masterclass che fossero emanazioni immediate del cinema del reale, ma anche scambi con discipline altre e diverse che intrattenessero punti di contatto con il documentario o con l’urgenza narrativa del reale stesso.

Quest’anno abbiamo scelto Hendel perché, con la sua storia, le sue competenze, i suoi libri, è stato ed è ancora un punto di riferimento per diverse generazioni di documentaristi, mentre con Sangiorgio è un sodalizio che si ripete da anni, e con lui lavoriamo sempre sulla parte della relazione — critica ma non solo — con il prodotto cinematografico, documentaristico o di fiction.

Ci interessano le prossimità, le contaminazioni, le alterità, anche per gli incontri e i workshop. Ne abbiamo altri, quest’anno, che possono spiegare ancora meglio la nostra idea di masterclass: da un lato Wu Ming 1 verrà a raccontarci, partendo dal suo libro, le narrazioni tossiche, le inchieste ibride e le fantasie di complotto della contemporaneità, partendo da QAnon per arrivare alla situazione italiana.

Di più: anche un Djset come quello di ToffoloMuzik si strutturerà come una viaggio nelle suggestioni geografiche, musicali e materiche che lo hanno portato alla realizzazione di Rotte interrotte, il suo primo disco firmato come Cemento Atlantico, a settembre disco del mese per Rumore. Senza dimenticare  workshop dedicati ai bambini, utili per non crescere cittadini vittime della sovraesposizione audiovisiva della contemporaneità.

Il tutto connesso con quello che è il titolo portante della nuova edizione.

Mi ricollego al testo scritto da te per la scelta del titolo: “Storie di un altro mondo”. Se a cambiare sono gli strumenti, la prospettiva, i soggetti, ma anche gli ascoltatori, come si può rappresentare un mondo che diventa sempre “un altro mondo”?

Questa è una delle domande a cui stiamo cercando di dare risposta, una risposta che difficilmente sarà univoca o unanimemente condivisa. Probabilmente una risposta sta, almeno in parte, in quello che come documentaristi ci ripetiamo spesso: essere sempre pronti a farsi sorprendere dal reale, senza cercare di prenotarlo o congelarlo, essere pronti a modificarsi per raccontarlo mentre il reale stesso si modifica, senza che questo significhi stare semplicemente seduti ad aspettare che le cose accadano.

Però, d’altra parte, se è vero che le cose bisogna andarle a vedere, bisogna parteciparle, è altrettanto vero che sarebbe necessario farlo con gli strumenti adatti per comprenderle. Bisogna osare e contaminarsi, ma con “una cassetta degli attrezzi” che ci permetta di elaborare e interpretare gli spazi, i luoghi e i tempi che frequentiamo.

Cosa deve avere, secondo te (e soprattutto se c’è risposta), un documentario per risultare completo?

Non c’è una risposta, secondo me, anche perché dovremmo accordarci sul termine “completo” e non sarebbe immediato. Però, per trovare una soluzione anche solo parziale e in termini totalmente personali, mi piace parafrasare il filosofo Rocco Ronchi, che dice una cosa che può rappresentare una suggestione forte, almeno per me: un documentario potrebbe (dovrebbe?) essere un trauma ed avere una funzione anti-sistemica, perché «solo attraverso il trauma passa il reale».

Ultima domanda. A chi consiglieresti di partecipare al Meet the Docs! Film Fest? 

Può sembrare una risposta paracula, ma in realtà lo consiglio a tuttǝ. Un documentario non è un prodotto di nicchia, un documentario parla a molti (non a tuttǝ, ché parlare a tuttǝ vuol dire non parlare a nessuno), è un’esperienza che può coinvolgere chiunque, un’esperienza che fa deragliare convinzioni e pregiudizi, ci porta fuori da noi verso mondi, storie e persone altre, ci porta a conoscerli e a smettere di avere paura. Ed è una pratica sana per chiunque, direi. Per qualcuno potrebbe anzi essere addirittura terapeutica.

Ti ringrazio per il tuo tempo.

Grazie a voi, è stato un piacere.

a cura di
Nicolò Angel Mendoza

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