Maneskin, lo faccio io il Teatro d’Ira
Disclaimer: in questo articolo non leggerete mai la parola “Rock”, se non in questo caso
Il primo disco de Maneskin, “Il Ballo della Vita”, era un’accozzaglia di idee, qualche buono spunto e cose fuori contesto. Ora è disponibile il secondo album “Teatro d’Ira – Vol.1”: un lavoro decisamente più a fuoco, con un suono robusto e meno patinato (non per questo meno curato). Sicuramente d’impatto.
Ma le domande, le solite, le più comuni, continuano a rimbalzare nell’aria: i Maneskin hanno talento? Sono fumo negli occhi? Sono solo apparenza? Hanno senso di esistere? Una cosa per volta.
Parliamo della musica, vi prego
È un appello tutt’altro che scontato. Nell’ultimo mese si è discusso sul fatto se la canzone presentata a Sanremo sia contestualizzabile in un genere piuttosto che in un altro, della loro messinscena sempre un po’ sopra le righe, di Damiano che si trucca, della veridicità o meno delle loro intenzioni… Non ci si è soffermati su una cosa fondamentale: come diavolo suonano i Maneskin? Che disco sono riusciti a partorire?
Scanso tutte queste diatribe da talk show della domenica pomeriggio, perché di questo si tratta. Ho ascoltato “Teatro d’Ira – Vol. 1” più volte e, soprattutto, ho aspettato. Cosa che molti non hanno fatto neppure potendo sfruttare il preascolto. Da una parte e dall’altra abbiamo assistito a una gara tra chi demolisce i Maneskin a priori o partendo da basi inutili, e chi sullo stesso piano li ha idolatrati come salvatori della patria e della “musica analogica”.
State zitti, ascoltate. Repeat.
Ascoltiamo “Teatro d’Ira – Vol. 1”. I ragazzi hanno puntato molto sul fatto di aver registrato in presa diretta. Si sente. Ovvio, qualche overdub, qualche piccolo aggiustamento è stato fatto, ma davvero poca roba; non a caso la differenza tra resa studio e live è davvero minima.
I Maneskin suonano originali? No, assolutamente.
I Maneskin suonano bene? Sì, perché prendono a piene mani dal background di ciascuno dei componenti e rielaborano quel che conoscono. Non lo stravolgono, anzi semplificano, ma il risultato è orecchiabile.
L’aspetto più interessante è che la band romana impacchetta un disco buono dal punto di vista sonoro. Rende bene. Paradossale come il pezzo più tirato, In Nome Del Padre, è sì avvincente, ma il più derivato (Rage Against The Machine senza il filo interdentale il Whammy di Tom Morello) e che per questo stanca prima. Vent’Anni è un ballatone il cui messaggio di fondo è “Ragazzi, abbiamo vent’anni, state calmi, fateci fare quello che vogliamo con calma”. Questo sì, è un pezzo banale, ben impacchettato, ma banale.
Il resto, però, è ascoltabile. I Wanna Be Your Slave è ritmata, ben concepita, stessa cosa dicasi per Lividi Sui Gomiti, La Paura Del Buio. C’è da essere felici per qualcosa fatto bene? Assolutamente sì. C’è da strapparsi i capelli per la gioia? Forse esageriamo.
Se volete ascoltare l’estro mostruoso di qualcuno, potete ascoltare Steve Vai che riesce a sorprendere anche usando una sola mano. Se volete vivere nel passato ottuso (non in quello da riscoperta, ma proprio da gabbia dorata), continuate a spellarvi le orecchie con Stairway To Heaven e ad ignorare completamente Achilles Last Stand. Siamo liberi nelle nostre scelte, ma altresì si devono accettare le conseguenze.
Scripta manet
“Ma scrivono robe scontate, ma li senti?”. Sì. In verità li ascolto e ogni tanto mi fanno “sentire”, inteso però come il verbo inglese “to feel”. È il caso di Coraline. Ballad ben suonata, soprattutto ben raccontata, tra delicatezza e sofferenza per una situazione da cui la protagonista non riesce ad allontanarsi. La narrazione lascia il segno.
Se Zitti e Buoni è provocazione con delle ingenuità, qui c’è della maturità tangibile rispetto alla pur discreta Marlena (che non abbiamo capito se sia tornata a casa o se abbia di nuovo perso il 50 per Prenestina) e al materiale contenuto nel precedente “Il Ballo Della Vita”.
Avevo il terrore che i Maneskin potessero presentare un secondo album orrendo. Mi sono ricreduto. Ho anche fatto bene, tuttavia, ad aspettare, ad ascoltare una seconda, terza, quarta volta questo disco. Ad aspettare, a far passare del tempo tra i primi due ascolti “di pancia” e gli altri più ragionati, più tranquilli, più distesi.
“Guarda, Simba. Guarda com’è vasto…”
“Teatro d’Ira – Vol. 1” non merita la merda che alcuni stanno lanciando con trabucchi tracotanti di parole-a-caso e concetti-da-hard-discount. Non è neppure la rivoluzione o l’araba fenice che altri, di rimando, stanno esaltando. “Teatro d’Ira – Vol.1” è un album gradevole di ragazzi che ci mettono passione e trasmettono passione, a prescindere se qualcuno indossa lustrini o se qualcun altro si agita come un demonio pur suonando la stessa nota per 20 secondi di seguito. È radiofonico, nella sua accezione che ognuno di noi può dare.
I Maneskin sono costruiti? Sono un progetto realizzato a tavolino? Scrivono loro i pezzi o hanno dei ghost writers? Sono puri? Ci sono i poteri forti dietro? Non cielo dikono? Di tutto questo, detto francamente, non riesco a vedere la fine della vastità del cazzo che me ne frega.
Posso solo dire che “Teatro d’Ira – Vol. 1” merita almeno un ascolto, scevro da qualsivoglia pregiudizio. Se non vi piace, deve non piacervi per motivi ben precisi, specifici, che vanno al di là del discorso “Ma la vera musica è altra”, se poi continuate ad ascoltare i soliti singoli (e non quantomeno intere discografie) dei soliti nomi altisonanti.
a cura di
Andrea Mariano