Questa pandemia mi ha fatto capire che “soltanto il tempo è nostro”
Quando c’è, fugge. Quando non c’è, fuggiamo noi. Tra tutto ciò che la pandemia ha modificato della mia vita, credo che il cambiamento più radicale sia senz’altro il mio rapporto con il tempo.
Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est.
[Epistulae ad Lucinium, Seneca]
Sembra che i Pink Floyd sapessero già nel ‘74 come sarebbe stata questa quarantena: “Ticking away the moments that make up a dull day/Fritter and waste the hours in an offhand way/ Kicking around on a piece of ground in your home town/Waiting for someone or something to show you the way”.
Se ci si pensa, è proprio il giusto contrappasso per una società che viveva in costante corsa, sempre di fretta, tesa al raggiungimento di obiettivi impossibili, alla ricerca perenne di qualcosa che non sappiamo bene nemmeno noi cosa sia.
Ecco che il coronavirus, come una vera e propria livella di totoiana memoria, costringe tutti a riprogrammare la propria vita: il lavoro è diventato smart (anche se di intelligente, nello stare dieci ore davanti a uno schermo, non so proprio che ci sia), le relazioni sono diventate proibite (solo conviventi e, da pochi giorni, congiunti: su chi siano poi questi ultimi, non mi ci voglio nemmeno soffermare).
Sport e hobby? Limitatamente al proprio giardino o ai 200 metri intorno alla propria abitazione. Stare tutta la giornata in ansiosa attesa del bollettino serale che conta quante vite si sono spente e quante sono ancora in pericolo non è un’opzione, a rischio della propria salute mentale: abbiamo dovuto modulare diversamente, allora, il nostro concetto di “tempo”.
La mia vita, come credo quella di molti di noi, è sempre stata basata su una rigida routine: lavoro, affetti, palestra, svago (poco). Tempo per se stessi: nullo.
Riuscendo a estraniarsi dalla tragicità degli eventi che avvengono in più o meno tutte le città medio-grandi del Nord e del Centro Italia, credo non ci sia nulla di più piacevole di imparare a “ri”prendersi il proprio tempo.
In questi giorni di isolamento forzato ho fatto esperienza di un benessere fino a poco tempo fa inesistente e impensabile: non credevo sarebbe stato possibile, se non durante le vacanze estive, potersi prendere una pausa dal lavoro e godersi i primi tiepidi raggi primaverili in giardino, o concedersi una sessione di lettura quasi quotidiana nelle prime ore del pomeriggio, allungando di qualche minuto la risicatissima pausa pranzo.
Faccio parte di una categoria di professionisti privilegiata, poiché, con tutti i disagi che comporta, mi rendo conto del vantaggio che deriva dalla possibilità di continuare a svolgere il proprio mestiere, comodamente (si fa per dire) da casa.
Era da decenni, forse da secoli, che l’essere umano non si prendeva il tempo di “pensare”: non è forse giunto il momento di farlo? Sembra quasi che la nostra Madre Natura (non quella maligna di Leopardi, quella buona, fertile e rigogliosa delle Veneri delle civiltà primitive) ci stia offrendo un’occasione (o forse ci stia dando un ultimatum): o si cambia il modo di vivere, o sarà il modo di vivere che cambia noi.
a cura di
Irene Lodi
2 pensieri su “Questa pandemia mi ha fatto capire che “soltanto il tempo è nostro””