“MADRE”: l’alchimia elettronica tra Go Dugong e Washé

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In questa intervista, esploriamo il cuore pulsante di “MADRE“, il nuovo album che nasce dall’incontro tra il produttore italiano Go Dugong e l’artista venezuelano Washé.

Tra Caracas e l’Amazzonia, due mondi lontani trovano un dialogo musicale inedito, intrecciando suoni rituali, ritmi tribali e sintetizzatori moderni. Un’opera che si muove tra immersione personale e messaggi universali, evocando il caos e l’armonia della natura.

Scopriamo insieme come la forza di questi luoghi e le loro influenze abbiano plasmato questa straordinaria collaborazione artistica.

Parliamo di “MADRE”, il tuo nuovo album realizzato insieme all’artista venezuelano Washé, dacci qualche informazione in più sul come e su dove nasce, in modo particolare.

Nel dicembre 2022 sono stato invitato per una residenza artistica a Caracas da HAPE Collective, un collettivo che si propone di organizzare scambi culturali con artisti provenienti da parti diverse del mondo. Uno dei fondatori, oltre che un caro amico, Simone (che è anche Simbo, dj e produttore con cui abbiamo collaborato anche nel pezzo Manaca contenuto nell’album) aveva da qualche tempo avviato Hape CCS, la costola Venezuelana del collettivo, con base a Caracas, e aveva avuto modo di conoscere tutto il sottobosco culturale della città e entrare in contatto con diversi dj e musicisti. Simone era rimasto molto colpito da uno di loro in particolare, ovvero Washé. Carlos (questo il suo vero nome) da più di vent’anni porta avanti la sua ricerca nella musica indigena venezuelana, collezionando diversi strumenti musicali e apprendendone il loro uso ritualistico.

In quel momento invece, la mia di ricerca si fondava sulle ritmiche tradizionali del Sud Italia e in particolare sul tamburo a cornice. Simone, che era al corrente di questo, ha avuto così la brillante idea di fare incontrare me e Carlos per fare musica assieme in quanto, secondo lui, condividiamo una sensibilità artistica molto simile. Ovviamente ho accettato e sono così partito per questa avventura, che si è svolta per metà a Caracas e per l’altra metà nell’Amazzonia Venezuelana.

Avete mescolato strumenti tradizionali venezuelani ed elettronica. Come avete bilanciato queste due anime così diverse, e cosa volevate trasmettere attraverso questa interazione?

Diciamo che Carlos ha curato più tutta la parte relativa agli strumenti tradizionali (provenienti da diversi gruppi etnici del Venezuela – principalmente Wayuu, Uwotjuja, Jiwi e Ye ́kwana) e io più quella relativa ai suoni sintetici e effettistica. Abbiamo cercato questa interazione per rappresentare la connessione tra la forza della natura e l’interazione con il mondo plastico moderno.

Da una parte, gli strumenti tradizionali, spesso ricavati da un unico pezzo di legno, teschio o conchiglia, incarnano l’essenza della natura, con un carattere arcaico e protettivo. D’altra parte, i suoni sintetici rappresentano l’immaterialità della nostra epoca, evocando tensione e contrasto. In questo album, i due mondi si incontrano, si scontrano e si intrecciano.

Quanto è stato importante il contesto geografico e temporale durante il processo creativo? La Foresta Amazzonica è un luogo senza tempo, ma il mondo plastico moderno è scandito dalla velocità. Come avete navigato tra questi due mondi?

Io credo che le due location nelle quali ha avuto luogo la residenza siano state entrambe fondamentali. Non avremmo percepito quel contrasto così forte e di conseguenza non avremmo potuto mettere così a fuoco il concept dell’album.

La mia permanenza a Caracas è stata bella intensa tra residenza in studio, progetti da finire da remoto, feste, serate, notti pazze, concerti e momenti che mi prendevo per visitare la città ed entrarci in connessione.

L’impatto con la selva è stato altrettanto intenso, perché è un luogo di base inospitale per chi, come noi, nasce e cresce nel cemento di una città.

Dopo soli pochi giorni però mi è capitato di percepire un forte cambiamento dentro di me, una sorta di adattamento fisico e mentale a quel tipo di ecosistema e questo potrebbe essere il segnale che il nostro corpo e la nostra mente, di base, siano naturalmente più inclini a una vita in armonia con la natura.

Nel comunicato stampa sono citate ispirazioni come Werner Herzog e Terence McKenna: ci potresti dire di più?

Herzog è uno dei miei registi preferiti e Fitzcarraldo forse è uno dei film che mi hanno più ispirato e chi lo conosce può immaginare il perché. È più di un film, è la performance artistica di un folle, di un sognatore che ha messo a rischio tutto, la sua intera vita e quella dei suoi collaboratori pur di riuscire a concludere un film esattamente come lo aveva pensato. Sono stati scritti libri su questo film maledetto e anche documentari tra cui Burden of Dreams in cui c’è questa intervista a Werner Herzog in cui parla del suo rapporto con la selva amazzonica, luogo in cui viene girato il film. Dice una cosa particolare che quando la sentii per la prima volta cambiò totalmente la mia percezione nei confronti della natura:

“ La natura qui è violenta, primitiva. Non ci vedo niente di erotico. Piuttosto fornicazione, asfissia, soffocamento e lotta per la sopravvivenza, crescita e putrefazione. Ovvio, c’è molta sofferenza ma è la stessa sofferenza che ci circonda. Gli alberi soffrono, gli uccelli soffrono. Per me non cantano, ma anzi urlano di dolore. È un luogo incompiuto, ancora preistorico. Ci mancano solo i dinosauri. È come una maledizione che pesa su tutto il territorio. E chiunque si addentri qui deve fare i conti con questa maledizione. Così noi siamo maledetti per quel che stiamo facendo qui. È  una terra che Dio, se un Dio esiste, ha creato con collera. È l’unica terra dove la creazione non è ancora terminata. A uno sguardo più attento si scopre una certa armonia. È l’armonia del massacro collettivo. E noi, confrontati con l’eloquente abiezione e infamia e oscenità di tutta questa giungla, comparati a tutto questo enorme snodarsi, suoniamo e sembriamo come frasi mal pronunciate e incompiute di uno stupido romanzo suburbano da quattro soldi. Dobbiamo provare umiltà di fronte a questa opprimente miseria e opprimente fornicazione, opprimente crescita e opprimente mancanza d’ordine. Anche le stelle lassù nel cielo sembrano un caos. Non c’è armonia nell’universo. Dobbiamo rendercene conto che non c’è una reale armonia così come l’abbiamo concepita noi. Ma lo dico pieno di ammirazione per la giungla. Non la odio. La adoro. L’amo molto. Ma l’amo contro il mio buon senso”.

Non serve aggiungere altro.

Terence McKenna è stato uno scrittore, naturalista e filosofo statunitense, importante esponente della cultura psichedelica ed etnobotanico. Anche lui è stato per me un bel punto di riferimento e il suo libro, “Vere Allucinazioni”, diario di un viaggio nell’Amazzonia colombiana assieme ad alcuni altri psiconauti alla ricerca di un potente allucinogeno chiamato oo-koo-hé, è stata per me un importante lettura (abbastanza fuori di testa), in grado di generarmi numerose riflessioni in merito alla natura e all’energia potente emanata della foresta amazzonica.

Sempre dal testo che accompagna l’album, l’interazione tra le tradizioni musicali venezuelane e l’elettronica è descritta come una “danza dialettica”. Come avete costruito questo dialogo durante la produzione dell’album?

Alcuni brani, quelli più ambient e più astratti, sono nati come una sessione di improvvisazione in presa diretta tra me e Carlos. Per esempio, per Tierra abbiamo disegnato tutti gli strati del suolo, partendo da quello più superficiale fino ad arrivare al magma che ribolle al centro della terra. Abbiamo usato i vari strati come uno spartito cercando di interpretarli in tempo reale con la musica e con gli strumenti a nostra disposizione. Questi brani sono stati ritoccati e post prodotti molto poco, sono molto fedeli a come li abbiamo registrati. Abbiamo aggiunto qualche field recordings registrato successivamente nella selva.

In altri il processo è stato meno istintivo e più ragionato e prodotto.  Ma di base ci siamo sempre dati un concetto che abbiamo successivamente cercato di musicare. Come se fosse stato una soundtrack di un documentario o una storia o una fotografia presente nella nostra immaginazione.

Descriveresti questo disco come un’esplorazione personale o un invito universale?

Entrambe le cose. È stata un esperienza che ha cambiato non solo la mia vita ma penso quella di tutte le persone che l’hanno vissuta assieme a me. Sono immensamente grato per questo. A volta è era tutto così potente e travolgente che la musica e il risultato di quello che stavamo facendo quasi smetteva di avere importanza, passava direttamente in secondo piano.

Nello stesso tempo siamo riusciti a restituire qualcosa da questa esperienza, un album che tutto il mondo può ascoltare e speriamo, attraverso esso di riuscire a trasmettere determinati messaggi e sensazioni.

La vostra musica sembra pensata per un’esperienza quasi meditativa. Come immagini che il pubblico si rapporti al vostro album durante l’ascolto?

Immagino che possa immergersi in un viaggio profondo e percepire l’energia della selva. Spero che chiudendo gli occhi le persone possano per un attimo volare con la fantasia e ritrovarsi nel bel mezzo dell’Amazzonia circondate da tutta quella meraviglia caotica, quella natura che urla anche nei momenti in cui è più silenziosa.

Dopo un progetto così intenso e complesso, cosa ci possiamo aspettare da Go Dugong? Quali altre frontiere sonore sei in procinto di esplorare?

Ora sono molto concentrato su questa uscita e non ho ancora avuto modo di pensare a cosa ci sarà dopo. Sto preparando il live in band che comunque prevede un duro lavoro e preferisco concentrare le mie energie ancora su MADRE perché è un album che per quanto mi riguarda non ha ancora smesso di “dare”.

a cura di
Ilaria Rapa

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