“Nero Crescente” di Patrizia Baglione

“Nero Crescente” di Patrizia Baglione
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Quando sofferenza e amore diventano parametri vitali

L’amore è un’esperienza totalizzante.

E’ un evento che travolge come un’onda. Ha la stessa potenza distruttiva e, come un’onda, può essere per chi ne è travolto, culla o tomba, a seconda del modo in cui scegliamo (o talvolta ci capita nostro malgrado) di abbandonarci ad esso.

Patrizia Baglione, giovanissima autrice, classe 1994, nella sua silloge poetica Nero Crescente, edita da RP Libri, dà prova di conoscere assai bene tali dinamiche.

Ed è da tale conoscenza approfondita, nonché da una sensibilità assolutamente fuori dal comune, che prendono forma le sue liriche.

Versi densi di vita, di struggimento e di languore. 

Parole che riecheggiano come canti di sirena, dolcissime, affascinanti e strazianti.

Ci trascinano nel loro incessante vorticare, ci frantumano nel segreto della notte e del silenzio, sparpagliando i nostri frammenti.

L’amore ci viene presentato con una lingua particolare, una musicalità nuova, in cui a farla da padrone è la sinestesia, a riprova di quanto esso possa coinvolgere ogni ambito della nostra esistenza, lacerando l’anima, stravolgendo il pensiero, spingendo al limite stati d’animo e percezioni sensoriali.

Il sentimento annienta la passione, fa abbassare le difese, sovverte principi e volontà.

E’ qualcosa che finisce per far combaciare gli opposti, per far toccare gli estremi, per capovolgere l’ordine naturale delle cose mutando prospettive e desideri.

Spinge l’autrice a scrivere:

è così che voglio essere

non più ghiaccio che trema

ma idea di essere sciolta.

L’abbandono totale e incondizionato al capriccio dell’amato diventa quasi la risposta a una necessità primordiale, a un’esigenza fisica, la cui negazione rischia di tradursi in una rinuncia alla luce e alla vita stessa. Non può esserci consolazione in un cielo stellato, o sollievo nella contemplazione degli spettacoli che la natura offre, se ad albergare nelle stanze del cuore è una tenebra che solo un paio di occhi amati possono dissipare.

cosa me ne faccio delle stelle

se poi

vivo solo di occhi

e appena te ne vai

torna buia questa stanza.

L’oggetto del desiderio, in una prospettiva quasi biblica, si fa carne della carne di chi lo ama. Ma mentre nei testi sacri, agli innamorati, si riconosce una pari vitalità, qui siamo di fronte a sostanza viva che ricopre membra morte, a linfa che fa tornare a pulsare muscoli atrofizzati, come un nuovo manto verde che, a primavera, torna a ricoprire, compassionevole, un terreno inaridito dal rigore invernale.

sei tu la sola pelle

sopra la mia carne morta

Parole che paiono quasi voler sottolineare come, a definire l’esistenza stessa della poetessa, sia la persona amata, senza la quale perderebbe perfino il proprio status di essere vivente.

E quando l’amore è destinato a finire, si può sfuggire a tutto, fuorché al ricordo.

La Baglione parla dell’oblio come di un buco nero che arriva subito dopo la disperazione. Ma il ricordo ha tinte altrettanto cupe, è eterno come la notte perché destinato a perpetuarsi incessantemente. Non ci sarà giorno in cui esso non farà capolino, proprio come le tenebre dopo il tramonto. Ed è difficile stabilire se questa sia una speranza cui aggrapparsi, o una condanna in virtù della quale disperarsi.

Perché la spirale delle emozioni continua a disegnare i suoi mulinelli impazziti, modificando ininterrottamente le nostre percezioni.

E’ il dilemma dell’ Odi et Amo catulliano, è la sempiterna dualità dell’amore, costantemente “croce” e “delizia” del nostro vivere.

Al punto che quando esso finisce, inizialmente, la vita stessa pare spegnersi.

O ridursi all’apatica sopravvivenza di un essere inanimato:

Il sasso è più vivo di me:

calmo e sereno

passa la vita senza porsi

troppe domande

mentre io non provo gioia

ma ho il cuore

come una spina dura e costante

capace di solcare solo un terreno.

La morte stessa non è più dolce consolatrice, se a funestarne la quiete è il rimpianto.

L’autrice si domanda se le anime attendano, serene, di fare il loro ingresso in cielo.

Ma poi si lascia attanagliare dal dubbio:

O forse esausti

a ripetizione si dicono – potevo

fare molto di più

e piangono in loro tutti i giorni.

Resta il dolore. Un dolore sordo e muto.

Che quanto più è silente, tanto più stordisce:

Resta qualcosa di atteso

questo dolore

che non c’è ma non passa.

Ti guarda dritto negli occhi

e aspetta che sia tu

ad abbassare lo sguardo.

Non ti lascia scampo

nessuna fuga

 o alberi per potersi arrampicare.

Solo lacrime dense di piogge

mai scese a terra.

E forse, è proprio in quelle lacrime non versate, che si cela la ricchezza di quest’anima.

Forse, è proprio nell’arcobaleno che ciascuna di esse, in segreto riflette, che si nasconde la sua bellezza.

La sua voce muta che grida, vibrante di dolore: “Amo. Soffro. E, in virtù di questo…VIVO.”

a cura di
Romina Russo

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Romina Russo

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