“Copie di copie”: una chiacchierata originale con gli Aurevoir Sòfia

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A metà novembre, gli Aurevoir Sòfia hanno pubblicato il loro ultimo singolo per Kick&Snare Productions. “Copie di copie” spazza via qualsiasi possibile clone mostrando le salde radici dell’attitudine punk della band lombarda e tutta la potenza di un tema che ha la capacità di viaggiare tra una dimensione personale e una condivisa.

“Copie di copie” si pone tra gli ultimi sforzi degli Aurevoir Sòfia nella loro personale ricerca di un sound innovativo rispetto a quello degli esordi, più autentico ed identitario, ma sempre e comunque in linea con l’energia che attraversa tutta la loro discografia. Non temono la contaminazione stilistica: nei loro ultimi singoli, il punk rock più classico si unisce a sonorità più morbide e urban. Non è un caso che il tema affrontato nel testo riguardi il difficile equilibrio tra la propria personale percezione di sé e le aspettative altrui.

Ci spiega meglio tutto Luca, frontman della band:

“Copie di Copie” parla del sentirsi in “bilico tra chi ti senti di essere e cosa gli altri si aspettano da te, tra autenticità e paura del giudizio”. Dalla descrizione del brano sembra abbastanza semplice ottenere una percezione chiara di sé; ma come si arriva al riconoscere un’autenticità propria, sia a livello personale sia come band? Tra “Copie di copie” come riconosci l’originale?

Ovviamente non è un percorso facile, forse non si arriva mai a questa autenticità. Quello che cerchiamo di dire in questo pezzo è che, forse, è più importante iniziare un percorso, cercare di capire, di rendersi conto di questa cosa, più che arrivarci davvero perché forse è anche impossibile. Alla fine, penso che essere genuini con se stessi, autentici, sia quello che conta. Non è un percorso facile, forse non ha nemmeno una destinazione chiara.

Sto sempre da solo/Se no è perché suono”: in questa ricerca, cosa conta di più tra la solitudine e la condivisione di emozioni con un gruppo di persone (che può essere sia la band, sia un gruppo di fan)?

Secondo me, dipende davvero da persona a persona. Quel verso in particolare l’ho scritto con un po’ di ironia che, alla fine, caratterizza anche alcuni versi del pezzo (ovviamente è super autobiografico). In particolare, non penso che ci sia una formula univoca per tutti. C’è chi magari ha bisogno di circondarsi di altre persone, chi preferisce che sia un percorso più in solitaria. Per me in particolare, penso che ci sia bisogno di entrambe le cose che è anche un po’ come viviamo con i Sòfia: tutto il processo musicale, di scrittura di brani, è condiviso, avviene insieme tra di noi, ma poi io personalmente ho anche bisogno di quel momento per stare da solo, soprattutto quando scrivo.

Ho notato anche una sorta di “sottotesto” che vede come protagonista la depressione; è così? È stato facile legare questa malattia alla all’invettiva del punk?

Probabilmente sì perché, se pensiamo che il claim principale del punk è “No future”, mi sembra abbastanza un tema che può essere legato al concetto di depressione (anche qui, tema abbastanza autobiografico). Le cose si legano: quando si parla di rabbia del punk, di invettiva, alla fine è una reazione a qualcos’altro, non è a sé stante. Il sentimento da cui scaturisce, spesso, è questa “non accettazione” di qualcosa che può essere anche una tristezza. Spesso la rabbia è una reazione a questo sentimento, a questa realtà.

Qual è il luogo di cui parlate all’inizio del brano?

Non è un luogo preciso, è il non trovare il proprio posto all’interno della musica in generale che è una cosa che abbiamo provato spesso soprattutto quando abbiamo scritto questo nuovo set di singoli che sono usciti. Il fatto di non saperci identificare bene anche in un genere preciso, il non avere riferimenti chiari. Quando dico “questo non è il mio posto”, parlo proprio di quella sensazione di dire: “Ok, forse non sono sicuro di essere nel posto giusto”. Nasce tutto da un’insicurezza, noi facciamo musica e quindi l’abbiamo legata a questo contesto.

Le sonorità di quest’ultimo singolo sembrano voler unire quelle dell’album “Wither” a quelle degli ultimi singoli (“Cadillac II”, “Anything” e “Comunque lo stesso”), cercando una via di mezzo tra il punk più pestato e i pezzi un po’ più morbidi; è così? Questa caratteristica si lega in qualche modo al tema affrontato nel testo?

Sull’energia del pezzo forse sì, è tra i più potenti. Credo che questo derivi anche dai temi che affronta con un linguaggio un po’ più sfrontato rispetto agli altri. Nell’insieme magari dà quell’idea di energia che si può ricondurre al primo disco. Penso che anche gli altri singoli abbiano delle componenti molto energiche, come dicevi tu “pestate”, e questo dipende anche dalla registrazione perché siamo stati in uno studio diverso, questo pezzo è stato interamente prodotto da Kick&Snare che è la nostra etichetta, quindi c’è stata una ricerca diversa rispetto a quella dei precedenti tre singoli. Penso che tutte queste caratteristiche possano portare a questo pensiero.

Suppongo che dal vivo portiate un po’ tutta la vostra discografia; come reagisce il pubblico al cambio di sonorità durante il live?

Il pubblico è l’unico che ci tranquillizza sempre su questo punto. Da quando abbiamo scritto i singoli, li abbiamo fatti uscire, avevamo molta paura che questo cambio si sentisse tanto live. In realtà, poi, sono stati proprio i nostri amici, le persone che ci vengono a sentire, a dirci che questo cambio di direzione, live, è quasi impercettibile. Probabilmente, anche per come li suoniamo, anche un pezzo del primo disco, suonato adesso, suonerà comunque in modo differente per una questione di approccio, per una questione di suoni, per una questione di arrangiamento che pian piano evolve sempre. Nonostante la nostra paura di sembrare troppo distaccati, in realtà, ci hanno tutti tranquillizzato su questo punto.

Magari, indirettamente, vi ha aiutati proprio ad accogliere nuovi fan…

Sì sì, è vero, spesso ci hanno anche detto che questi cambi di dinamiche – quindi aggiungere dei pezzi come “Comunque lo stesso” che ha un’intro molto più leggera – queste parti, aiutano ad avere un live più godibile piuttosto che trenta minuti di pezzi a 180 bpm.

Una domanda che probabilmente vi avranno già fatto: che ruolo gioca il plurilinguismo (qui vediamo francese, inglese e italiano) per la vostra urgenza espressiva? È una scelta che vi aiuta ad esprimervi al meglio oppure lo fate più per una questione riguardante i fan e di approcci ad un ambiente musicale estero?

Ci sono diverse risposte in realtà. L’hai visto anche tu, nel primo disco abbiamo scritto totalmente in inglese e abbiamo sempre avuto questo dilemma: se scrivere in italiano o in inglese. All’inizio, nei primi anni dei Sòfia, pensavamo che ci sarebbe stato poco mercato in Italia per un progetto come il nostro quindi non avevamo dubbi sull’andare con il secondo.

Poi, pian piano, invece, anche per come siamo stati accolti dalla scena, abbiamo visto che l’italiano in realtà aveva un suo spazio. Io mi metto in prima persona perché scrivo i testi, però, scrivere in italiano mi è sempre piaciuto. Questo può essere un primo motivo: capire che effettivamente c’era spazio per fare questo tipo di musica.

In secondo luogo, è anche una questione di originalità: io non conoscevo nessuna band o nessun artista che mischiasse in questo modo tre lingue. L’inglese lo parlo, il francese fa parte della mia infanzia per via di mia nonna e quindi ho pensato che potesse essere un modo per fare qualcosa di veramente mio, qualcosa che non fa nessun altro e quindi ho provato a farlo. Un altro motivo penso che riguardi anche le sonorità un po’ urban della musica che è in classifica adesso. Visto che noi abbiamo sempre provato a sperimentare con il punk, con il rock, con delle parti rap, l’idea di mescolarci anche un po’ all’urban e quindi anche di usare un po’ di francese, che ultimamente nel rap sta andando molto, mi è piaciuta. Per una serie di motivi come questi, ho deciso che valesse la pena provarci e gli altri sono stati d’accordo.

Da fuori, la Lombardia sembra un po’ una roccaforte del punk a livello nazionale; lo è?

Non so se sia la roccaforte del punk, ma sicuramente per la musica e per la musica live, attualmente, Milano non si batte. Di conseguenza, convergono qui tanti generi musicali tra cui anche il punk. È molto più facile trovare concerti e realtà a cui appoggiarsi. Lo dico anche con un po’ di tristezza in realtà perché poi ci sono band validissime provenienti da tutta Italia. Spesso, sono costrette a venire qui e, quando si è band indipendenti, non è facile affrontare viaggi magari dalla Puglia a Milano, anche per questioni di cachet che rendono difficile questa interconnessione che invece piacerebbe a tutti. Suo malgrado, penso che la Lombardia, adesso, sia la regione che offre più possibilità.

Domanda di chiusura: quali sono i vostri progetti per il futuro? Tutti questi singoli, alla fine, andranno in un unico album?

Il progetto è di fare un disco, di uscire nel 2025, anche se non ci precludiamo altre strade al momento. Noi siamo cresciuti con l’idea della band che deve fare il disco e tutto girava attorno a studio, disco, tour. Invece, una parte della nostra piccola rivoluzione è anche cercare nuovi modi per fare musica e, questo fatto di uscire con i singoli, in un modo molto molto slegato da questa tradizione, ci è piaciuta anche per questioni legate alla musica di oggi che purtroppo funziona anche con le piattaforme e con gli algoritmi. La strategia, per quest’anno, è stata quella di seguire un po’ questo trend e cercare di far uscire più singoli possibile. Ovviamente, l’idea di avere un disco, un oggetto fisico, a noi piace quindi lavoreremo anche in quella direzione.

a cura di
Lucia Tamburello

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