Voglio mangiare il tuo pancreas, la vita come cura
Voglio mangiare il tuo pancreas rappresenta l’esordio alla regia di Shinichirō Ushijima che, con un adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Yoru Sumino, porta nelle nostre case una storia dalla straordinaria sensibilità.
L’anime racconta l’incontro tra due liceali con personalità apparentemente opposte: Sakura Yamauchi, una ragazza che ricorda lo splendore del sole e che si porta sulla pelle un enorme desiderio di vivere, e Haruki Shiga, un giovane intrappolato nella sua timidezza e nei suoi lati oscuri che non riesce a trovare la strada verso l’altro.
I due protagonisti s’incrociano, ad inizio film, nella sala d’attesa di un ospedale.
Haruki, spinto dalla sua grande curiosità per i libri, si ritrova a sfogliare un quaderno lasciato incustodito sopra una sedia accanto a lui. Quei fogli colmi di parole in cui s’immerge sono di Sakura e quelle pagine macchiate d’inchiostro sono il diario della sua malattia: una patologia terminale al pancreas che un giorno la porterà alla morte ma che, in quel momento, segna l’inizio di un legame che cambierà le loro vite.
Una storia di diversità, ma anche sulla bellezza di trovare uno sguardo che ci veda come esseri “normali”.
È proprio questo, infatti, che colpisce il cuore di Sakura: la capacità da parte di Haruki di guardarla e viverla non nel nero della sua malattia, bensì nelle sfumature colorate della sua unicità, tanto da desiderare di trascorrere gli ultimi attimi della propria vita tra le braccia e la cura di quello strano ragazzo.
Un racconto sull’importanza e l’influenza delle relazioni e sui giochi del destino.
Proprio come i nomi di quei due ragazzi: Haru, infatti, significa primavera, mentre Sakura sono i ciliegi che in quella stagione mostrano il loro splendore. E Haruki e Sakura fioriscono appunto in questa maniera: insieme. Mischiandosi, scontrandosi, affondando nel dolore, risalendo in superficie grazie alla bellezza del loro sentimento.
Nutrendosi dell’ultima vita rimasta e “mangiandosi il pancreas” come atto d’amore (secondo una credenza giapponese, mangiare una parte del corpo di una persona amata aiuta a curare la stessa parte dalla malattia). Così, giorno dopo giorno, passo dopo passo.
Quasi da credere in quei fili rossi tessuti dal fato, per poi comprendere che ogni impronta lasciata sul proprio passato li aveva condotti all’unione delle loro strade.
Un film, quello di Shinichirō Ushijima, che con la solita delicatezza disarmante della regia giapponese sa trasportare nella profondità di tematiche esistenziali.
Dalla malattia alla guarigione, dalla morte alla vita, dall’amicizia all’amore, dalla diversità alla somiglianza. Una pellicola che in un paio d’ore ti fa sorridere e piangere come s’una folle montagna russa di emozioni. Ma che alla fine ti regala la sensazione che quella giostra altro non sei che tu. Nel tuo posto poco saldo ai binari di una vita di cui puoi scegliere sempre la direzione.
Un film che ha conquistato un luogo preferito in un angolo del mio petto.
Fate un po’ di spazio nel vostro cuore, ché certe storie sono capaci di allargare.
a cura di
Gian Marco Manzo
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