Abbiamo incontrato l’artista calabrese nei Macro Beats Studio di Milano per parlare del suo nuovo EP: dal featuring con Ghemon al difficile passaggio verso i trent’anni
Verso la fine dei vent’anni arriva quel momento in cui si tirano le prime somme e, quasi senza accorgersene, si cresce. Il passato inizia a pesare in modo diverso, filtrato da una maturità che prima non c’era. È questo uno dei temi cardine di “Lontano da qui“, il nuovo EP di Paola Pizzino.
Cinque tracce, prodotte da Macro Beats su distribuzione Artist First, nelle quali l’artista calabrese si aggira in una variopinta tavolozza sonora: dalla contemporary R&B di “Senza Rimorsi” all’urban pop di “Sola” – cantata in feat con Ghemon – passando per parentesi più vicine all’elettronica (“Come capita”).
Una serie di strumentali, in bilico tra analogico e digitale, su cui Paola stende strofe e ritornelli introspettivi e autobiografici, che fluttuano in una specie di spazio sospeso, attraversato da quel confine sottile tra il voler scappare e lo scegliere di restare.
Un racconto che nella sua indubbia lucidità nasconde anche una grandissima emotività, canalizzata attraverso una scrittura personale, con cui la musicista classe ’96 mostra le proprie fragilità senza cercare alcun tipo di commiserazione o sovraesposizione.
E proprio in vista dell’uscita di “Lontano da qui” abbiamo incontrato Paola Pizzino nei Macro Beats Studio di Milano, dove le cinque tracce del suo nuovo EP hanno preso forma definitiva. Una lunga chiacchierata in cui abbiamo parlato di crescita, del feat con Ghemon e di quanto sia difficile trovare il giusto equilibrio tra autenticità e visibilità in un panorama musicale sempre più schiavo di numeri e apparenze.
Partiamo da un tema ricorrente in “Lontano da qui” che è la famigerata “fine dei vent’anni”. Cosa ti sta lasciando questa complicata fase di vita?
A essere sincera non mi sento ancora completamente dentro questa fase – sorride, ndr – e penso di essere più vicina ai venti che ai trent’anni anni, per quanto anagraficamente purtroppo non sia così. Le cose “dei grandi” mi spaventano da morire. Però, allo stesso tempo, sono una bella sfida. A me piacciono le sfide, soprattutto quelle difficili. Per cui la paura senza dubbio c’è ma c’è anche tanta energia.
So che è un po’ fastidiosa come domanda ma te la faccio lo stesso. Senti il fatto che il mercato sia improntato verso artisti molto più giovani rispetto ai 30 anni?
In effetti sì, un po’ di ansia la crea. Purtroppo mi capita di aprire il telefonino e provare sempre un po’ di invidia, quasi fastidio verso questa cosa. Poi, una volta spento lo smartphone, ascolto quello che sto facendo e mi piace. Guardo le persone che ho intorno e mi piacciono. Sono contenta di quello che faccio e va benissimo così, per cui questa sensazione dura il tempo di una scrollata sui social.
Questi cambiamenti, legati al passaggio dai 20 ai 30 anni, in che modo si legano al titolo del tuo EP?
Quando ho iniziato a scrivere “Lontano da qui”, mi sono prefissata un obiettivo: passare a tematiche un po’ più importanti rispetto a quelle incentrate su fidanzati o amori finiti. Probabilmente questo cambio di rotta rientra nel mio percorso di avvicinamento ai trent’anni. Per carità, l’amore ritorna e tornerà sempre nella musica. Però vorrei anche avvicinarmi a sentimenti e situazioni più difficili da tirare fuori. In primis con una lucidità diversa, legata alla mia crescita sia come artista che come persona. Anche questa è una bella sfida, ma credo di essere pronta ad affrontarla.
Come nascono le tue canzoni. Vai più per istinto o c’è un processo più meditato dietro la scrittura dei brani?
Penso che sia un buon mix di entrambi. Se con il primissimo EP – “Difendimi” ndr – le canzoni sono nate senza che mi rendessi davvero conto di cosa sarebbero potute diventare. Non c’era l’idea di creare un disco o un percorso musicale da professionista. Ora, c’è invece una consapevolezza diversa di quella che è l’industria musicale, i vari movimenti della musica sulle piattaforme e la dimensione dei live. C’è una direzione, un contesto e un contenitore ben preciso. È rimasta quella spinta del “sto provando un’emozione, prendo il telefono e butto giù degli appunti o prendo la chitarra e scrivo una melodia” ma ora viene in qualche modo, spesso anche involontariamente, plasmata dall’ottica di inserirla in un disco. Finora ho preso spunto da momenti che effettivamente vivo. Non riesco ancora a parlare di una storia che non mi appartiene, anche se è un’altra di quelle sfide che vorrei affrontare.
A differenza di quello che si trova di solito nella musica mainstream, in “Lontano da qui” le parole pesano, scavano. Come si fa a far arrivare in alto qualcosa che non vuole restare in superficie?
Un ottimo esempio è sicuramente quello che ha fatto Lucio Corsi a Sanremo quest’anno, che ha portato qualcosa di molto profondo a un pubblico così ampio. Io personalmente cerco sempre di migliorare: non mi va mai bene quello che scrivo quindi, per me si può sempre fare di più. E questa evoluzione la vedo proprio nella profondità del testo e nel messaggio che si vuole inserire in un pezzo. La prima cosa che devo affrontare è senza ombra di dubbio questa. Poi, come farlo ascoltare a più persone possibili, è un mio problema secondario. Voglio innanzitutto fare una cosa che mi piaccia veramente tanto. Poi, se gli altri la vogliono ascoltare, sono felicissima: anche se la cantano venti persone sotto al palco ma che siano davvero coinvolte in quello che sto suonando.
Com’è nato il featuring con Ghemon?
In realtà questa collaborazione è nata in maniera molto semplice, grazie a Macro Beats. Sono andata a una delle date di “Una cosetta così” – serie di spettacoli che Ghemon ha portato in Italia nel corso del 2023 che uniscono musica, stand-up comedy e storytelling ndr – ed è proprio lì che l’ho conosciuto per la prima volta. È un artista che stimo e seguo da sempre per cui, fra una cosa e l’altra, l’etichetta ci ha fatti conoscere, un po’ come cupido. Di certo hanno anche aiutato le nostre passioni comuni per il basket e l’R&B.
Secondo te, quanto è importante avere featuring di un artista affermato nel proprio disco?
Quando è uscito l’annuncio della mia collaborazione con Ghemon in “Sola”, un sacco di miei amici della mia zona mi hanno messaggiato dicendomi “Ma ti rendi conto di che cosa sta succedendo, come ti senti?”. Personalmente non me ne sono quasi resa conto. Certo, questo feat è per me una cosa stupenda, un sogno che si avvera. Ma alla mia personalissima carriera, aggiunge qualcosa che mi porto dentro io. È un importante mattoncino formativo che ho aggiunto a me stessa, alla mia musica. Quando è uscito il brano, io ovviamente ho ringraziato Ghemon, sottolineando come la sua presenza nel mio EP fosse un sogno diventato realtà. Lui mi ha risposto con una frase che mi è rimasta impressa: “Grazie a te per avermi fatto spazio nel tuo percorso”. La cosa che più mi rende orgogliosa di tutto questo è che è stato uno scambio artistico che ha aggiunto qualcosa a entrambi. E questo secondo me è bellissimo.
Per un’artista come te, nata e cresciuta sull’onda della rivoluzione digitale della musica, quanto è importante pubblicare oggi un LP in formato fisico?
A dire il vero è un’emozione che devo ancora processare. Quando parlo di “musica fisica” a me viene subito in mente la collezione di mio padre e le colazioni insieme mentre ascoltavamo la musica, che sentivamo rigorosamente inserendo il CD nello stereo. Mi ricordo che da piccola, quando compravo i CD di Elisa, mi chiudevo in camera e cominciavo a cantare a squarcia gola. Tra l’altro una volta mia madre ha aperto e mi ha visto cantare e ballare: mi sono vergognata come una ladra!

Penso che, rispetto allo streaming, con un LP o un CD ci sia un’attenzione diversa ed è proprio quella che mi fa stare bene. Vuol dire che tu hai preso quel disco, hai speso del tempo nel metterlo sul giradischi e sentirlo dall’inizio alla fine. Un tipo di esperienza diametralmente opposto rispetto all’ascolto “mordi e fuggi” delle piattaforme di streaming musicali.
Immagino che, poter avere il tuo lavoro tra le mani, sia anche la realizzazione concreta dei tuoi sforzi…
Assolutamente sì. Anche perché, lo ammetto, ho problemi a realizzare le cose belle. Quando c’è da dire qualcosa di che mi fa stare male, sono bravissima ad analizzare tutto per filo per segno. Se succede una cosa bella, io ho problemi: per ringraziarti non sono mai cosa dire oltre a un sincero “grazie”. Quando sono molto felice, e succedono cose che mi fanno stare bene, come faccio a dirti che sono davvero felice se non con un semplice ‘sono felice’?” È complicato…
Per chiudere un po’ il cerchio, quali sono, a livello personale e artistico, gli obiettivi che ti sei prefissata in vista dell’arrivo ai 30 anni?
In realtà, sto cominciando a capire che non mi sento “finita” per niente. Pensavo che ad un certo punto della mia vita, a forza di crescere e andare avanti lungo determinati percorsi, pensavo di fermarmi. Il classico trittico “casa-lavoro-famiglia”, che con il tempo costruisci e da cui non ti sposti più. In realtà, non mi ci sento per niente. C’è questo stimolo continuo, che molto probabilmente ti può portare alla follia – ride ndr – ma, almeno per il momento, mi auguro di arrivare ai trent’anni solo anagraficamente e di continuare a sentirmi una 16enne. No 16 anni sono pochi. Facciamo 23, come il numero di maglia di Michael Jordan.
a cura di
Luca Barenghi
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